(Filippo Ciantia)

I Nightingale (termine che in inglese indica l’usignolo) erano una benestante famiglia dell’élite borghese britannica.

Amavano profondamente l’Italia, tanto che la loro prima figlia, nata a Napoli, venne chiamata Parthenope, mentre la secondogenita, nata a Firenze nel 1820, fu battezzata Florence. Passata alla storia come “la signora con la lanterna”, è considerata la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna: ecco perché la data della sua nascita, il 12 maggio, è stata scelta per celebrare la giornata mondiale dell’infermiere (istituita nel 1974).

Grazie a Florence Nightingale, l’infermiera assunse un ruolo ed una importanza straordinari. Giovanissi-ma, capì che Dio la chiamava a prendersi cura dei malati. Chiamata a creare una task force di infermiere per un ospedale da campo in Crimea, nella guerra del 1854, attraverso la buona nutrizione, l’igiene personale e dell’ambiente, raggiunse risultati straordinari per sopravvivenza e guarigioni tra i soldati feriti.

Abilissima infermiera, presente in reparto anche di notte con la sua lampada, fu pioniera nell’uso delle statistiche e dell’infografica. Oltre alle corsie illuminò l’intera società, diventando “la madre” delle scienze infermieristiche.

“L’assistenza è un’arte e richiede una devozione totale ed una dura preparazione, come per qualunque opera di pittore o di scultore … Con la differenza che non si ha a che fare con una tela o con un gelido marmo, ma con il corpo umano, il tempio dello Spirito di Dio. È una delle belle arti. Anzi, è la più Bella delle Arti Belle”, soleva dire.

E ancora: “Nulla vale imparare ad assistere gli infermi, se non si impara ad assisterli con il proprio cervello e col proprio cuore… se non abbiamo una religiosità veramente sentita, la vita ospitaliera diventa un insieme di manualità compiute per abitudine e che inaridiscono mente e cuore”.

Anche grazie a Florence Nightingale, esattamente 200 anni dopo la sua nascita abbiamo potuto assistere allo spettacolo delle migliaia di infermiere e infermieri che hanno affrontato con perizia e coraggio l’epidemia da Covid-19, come allora in Crimea, chiamati a custodire e servire la vita. Il loro lavoro, come il canto dell’usignolo è un inno alla vita, che porta luce nell’oscurità del dolore.

“Nella loro professione … questi uomini e queste donne, stando accanto alla sofferenza, hanno risposto “sì” a una vocazione particolare: quella di essere buoni samaritani che si fanno carico della vita e delle ferite del prossimo. Custodi e servitori della vita, mentre somministrano le terapie necessarie, infondono coraggio, speranza e fiducia” (Papa Francesco).