Una riflessione sulla separazione dei minori dalle famiglie

(Cristina Terribili)

ROMA – Quante volte ci è capitato di dire “Mai più!” e dover poi far marcia indietro sui nostri propositi. Quante volte, malgrado la perentorietà e la razionalità delle ragioni abbiamo rivisto le nostre decisioni di fronte ad un esame della realtà più obiettivo e meno emotivo. Quante volte il “mai più” è stato circoscritto ad aree minime dell’esistenza perché si è capovolto di fronte ad un incontro, ad un nuovo avvenimento, ad una nuova conoscenza.

Chiunque abbia pronunciato un “mai più” sa bene che poi è “mai più, fino a quando non accadrà qualcosa che mi farà cambiare idea”.

Chi porta avanti il “mai più” si carica di un peso emotivo, di una sofferenza, limita la propria esistenza, vive una ferita sempre aperta. Il “mai più” va ricordato e messo in pratica costringendo se stessi o altri in una posizione oltremodo dolorosa. Questo accade anche quando si ha pienamente ragione, quando il “mai più” serve a salvarti la via.

L’unica alternativa al “mai più” è un cambiamento talmente profondo, una riflessione talmente acuta, una rivoluzione delle cose, dell’anima, che quel “mai più” diventa nuova vita.

La trasformazione deve essere talmente radicale da non permettere, proprio grazie al cambiamento, che quelle variabili che hanno portato al “mai più” non possano più ripresentarsi.

Quando applichiamo il “mai più” ad un contesto molto delicato, quale la separazione di un minore dalla sua famiglia, dobbiamo fare attenzione che per rendere questo vero, al di là di ogni slogan, devono essere posti in essere dei cambiamenti che riguardano ogni strato della popolazione, ma anche dei servizi, dei valori, del sistema in generale.

Permettere ad un bambino di non dover rinunciare mai alla propria famiglia significa garantire il migliore benessere possibile a tutto il nucleo familiare. E qui nasce una lunga lista di domande. Ma qual è il nucleo di un bambino? Bastano i genitori? Basta che questi abbiano una casa, un lavoro, che stiano bene in salute, che abbiano le capacità e competenze per prendersi cura e seguire e crescere un figlio, sia dal punto di vista fisico che dello spirito? Oppure il nucleo di una famiglia comprende i nonni, gli zii, gli amici di famiglia affinché ognuno di loro possa sostenere la coppia genitoriale o il bambino in caso di necessità? Ma oltre alle persone fisiche abbiamo per caso bisogno anche dei servizi? Abbiamo per caso bisogno di scuole, di luoghi di incontro, ricreazione e sport, di servizi sociali, di ospedali, di liste d’attesa insignificanti, di mezzi pubblici, di attività commerciali? Ma dentro questi luoghi abbiamo poi bisogno di personale, di professionisti, di lavoratori in generale preparati e competenti?

Permettersi di dire “mai più” senza prendere in esame che intorno ad un bambino ruota un mondo e che il mondo si deve modificare per permettere a quel “mai più” di potersi esprimere, è veramente un grande impegno. Forse può essere un desiderio ma per fare qualcosa di concreto bisognerebbe partire con un altro approccio.

Si potrebbe cominciare dalle piccole cose, dallo stabilire dei protocolli d’intesa tra i diversi servizi e le diverse istituzioni in modo da avere referenti sicuri in caso di necessità. Si potrebbe cominciare a creare spazi e supporti sociali, anch’essi con la possibilità di disporsi facilmente in caso di emergenza, al servizio di chi ne ha bisogno. Si potrebbe snellire la burocrazia e prevedere delle “corsie preferenziali” per prendere delle decisioni in tempi brevi.

Sarebbe utile pensare in termini di rete, di sistema e far crescere e stabilizzare piccoli nodi sui quali essere certi di poggiare un bambino e la sua famiglia in stato di bisogno.

Quando necessario si può prendere in considerazione anche l’allontanamento del bambino dal nucleo familiare se garantisce la salvaguardia del bambino stesso affinché non si debbano “mai più” leggere quelle storie di ordinaria disperazione che poi arrivano alla cronaca, quella nera, dei giornali.