(Mario Berardi)

Dall’estero sono giunti alcuni elogi al premier Draghi: la presidente Ue Ursula von der Leyen ha parlato di “rinascita dell’Italia”, parole simili dal nuovo Cancelliere tedesco Scholtz e dai media dell’alta finanza inglese come l’Economist (il cui primo azionista con il 43% è la Exor della famiglia Agnelli), e il Financial Times. Non sono mancate anche voci critiche. Il presidente Mattarella ha diviso equamente i “meriti” tra il Presidente del Consiglio e la maggioranza che lo sostiene.

I segretari di partito continuano a sentirsi “commissariati”: da Letta a Salvini, da Conte a Tajani passando per Renzi e Calenda, tutti chiedono al premier di restare a Palazzo Chigi per continuare l’attuazione del piano europeo di ripresa e resilienza; ma in realtà nascondono la preoccupazione che l’eventuale salita al Colle di Draghi sia una conferma del “commissariamento”, con la realizzazione di un sistema semipresidenziale, come profetizzato dal numero due della Lega, Giorgetti, grande “sponsor” dell’ex Presidente della BCE.

Si riapre il confronto tra Repubblica presidenziale e parlamentare, con la novità di una figura tecnica, non politica, forte dell’appoggio internazionale e, in particolare, del pieno sostegno del mondo imprenditoriale (il presidente della Confindustria Bonomi ha chiaramente espresso la scelta di Draghi per il Colle, con un nuovo governo di sua emanazione).

Nella storia della Repubblica non sono mancate le scelte “forti” del Quirinale: dalla rottura a destra di Giovanni Gronchi, nel ‘60, con il Governo Tambroni, alle “picconate” di Cossiga; in tempi più recenti le decisioni di Scalfaro e Napolitano di sostituire Berlusconi con i governi tecnici di Dini e Monti.

Lo stesso Mattarella, nella crisi dei partiti, ha fatto ricorso a Draghi, come fatto “emergenziale”, nella tragedia della pandemia. Ma ora i cultori del presidenzialismo darebbero alla scelta un carattere definitivo, non contingente, con una sconfitta profonda del sistema-partiti. I leader di maggioranza, tuttavia, faticano a definire un’alleanza parlamentare per il Colle; le scelte sono state rinviate al nuovo anno (la direzione del Pd ne parlerà il 13 gennaio) e intanto le due coalizioni e gli stessi centristi procedono in ordine sparso.

Il centro-destra deve smaltire l’ingombrante candidatura di Berlusconi (mal vista dalla Meloni); nel pacchetto di riserva ha almeno quattro nomi: Letizia Moratti, ex sindaco di Milano; Giuliano Amato, già braccio destro di Craxi; Pierferdinando Casini, ex presidente della Camera: l’attuale presidente di Palazzo Madama, Elisabetta Casellati. Per riuscire nell’impresa di conquistare il Colle, per la prima volta nella storia repubblicana, necessita del sostegno dei Centristi e del Gruppo Misto; ma anche qui regna la divisione, con Renzi che appare più disponibile (sperando forse in una “ricompensa” nel voto del Senato sulla sua immunità giudiziaria), mentre l’ex ministro Calenda punta sulla ministra di Giustizia Cartabia, sgradita a Salvini.

Il centro-sinistra (Pd, M5S, Leu) non dispone della maggioranza parlamentare, soprattutto per le molte defezioni nei Cinquestelle (i cui sondaggi sono ogni giorno più negativi: 13% contro il 33% delle politiche del 2018). I Centristi hanno escluso un appoggio a un candidato di sinistra e, quindi, Letta ha avviato un dialogo anche con la Meloni alla ricerca di una candidatura super-partes e unitaria (si parla anche della virologa italo-americana Ilaria Capua).

Il “Corriere della Sera” ha avanzato un’ipotesi “apocalittica” per i segretari di partito: tante votazioni in bianco per il Quirinale e, alla fine, per evitare la bancarotta istituzionale, ricorso “supplicante” alla candidatura Draghi. Per sfuggire a uno scenario deludente per il sistema democratico, i partiti, insieme alla scelta del candidato per il Colle, debbono anche accordarsi sulle strategie per il futuro: non solo la continuità della legislatura sino alla primavera 2023 (per la lotta alla pandemia e il piano europeo), ma contestualmente un’intesa sul sistema elettorale.

Una Repubblica “semipresidenziale” esige il maggioritario, quella parlamentare il ritorno al proporzionale “tedesco”; con l’attuale Rosatellum c’è la paralisi.

Il momento rimane delicato: Mattarella all’ultimo giro dei saluti richiama alla responsabilità verso le istituzioni democratiche.