“Viene un’epoca in cui ci si rende conto che tutto ciò che facciamo diventerà a suo tempo un ricordo. È la maturità. Per arrivarci bisogna appunto avere dei ricordi”: così scriveva Cesare Pavese ne “Il mestiere di vivere”. Era il 1° ottobre del 1944 e il grande scrittore albese aveva 36 anni. Ne hanno la metà i giovani alle prese in questi giorni con l’esame di diploma superiore, ma chiacchierando con loro pare proprio che i ricordi siano già tanti. Forse anche a questo pensava Giovanni Gentile quando, nel 1923, scelse di dare all’attuale esame di stato il nome di “Maturità”: una parola un po’ bella e un po’ misteriosa, di cui in fondo nessuno sa definire esattamente tutti i significati e tutte le sfumature.
Di certo, a questo hanno pensato gli studenti che lo scorso 8 giugno hanno concluso la quinta superiore, al suonare dell’ultima campanella – si fa per dire – della loro vita: una lunga routine che si è improvvisamente trasformata in un ricordo dolce e rassicurante, che lascia il posto però al temibile – ma inevitabile – ignoto, legato alla vita universitaria e lavorativa. A fare da ponte tra i due mondi c’è l’esame di stato: la Maturità, appunto.
Da molti anni la prova è oggetto di dibattito e opinioni contrastanti; e ancora di più nel momento attuale, alla soglia di un 2019 che promette un esame di stato notevolmente diverso e riveduto. Ma cosa pensano della Maturità gli studenti che la stanno vivendo in questi giorni? Una prova eccessivamente complessa, la conclusione di un percorso (in)soddisfacente, uno spreco di tempo ed energie? Stando alle risposte di molti liceali, essa è vissuta piuttosto come una palestra che prepara ai ritmi e alle tensioni del futuro e che, come un vero e proprio rito di iniziazione, si compone di cerimonie e prove da superare.
“La scuola in fondo è sempre un po’ una culla” commenta Veronica, maturanda diciottenne del Liceo Linguistico: “Si studia, si fa la verifica in classe, si prende un voto. La Maturità invece è diversa: una commissione che non ti conosce, una forte pressione, una serie di rituali e formalità che la rendono ufficiale e che richiamano l’idea di definitività. La maturità mi prepara ad un futuro in cui avrò a che fare con l’Università, con moltissimi esami, con il giudizio costante di persone sconosciute, e dovrò essere pronta a fronteggiare situazioni molto più difficili di quanto non lo sia la semplice verifica in classe per la quale, in alcuni casi, puoi anche studiare la mattina stessa”.
Le difficoltà sono tante, lo studio è impegnativo e l’ansia (il peggior nemico di ogni maturando) si fa sempre sentire: tuttavia, se ben gestita può costituire “uno stimolo, perché spinge a dare il meglio di sé e a non disperdere la concentrazione”, ma può essere anche “un ulteriore indizio della maturità effettiva dello studente, che arrivato a questo punto del suo percorso non può non essere in grado di esercitare su di sé un autocontrollo e un raccoglimento tale da dare il massimo anche in un momento di tensione” (ce lo dicono Giuditta, maturanda dell’Istituto Alberghiero, ed Elisa, diciannovenne dell’Artistico).
Unica pecca, rilevata da uno studente dello Scientifico, è forse un’eccessiva superficialità: “Dopo tre prove, fra le tre materie di indirizzo solo Matematica è stata verificata bene, Scienze in parte e Fisica per niente”. Ma c’è da dire che l’obiettivo della maturità tende forse più a fornire un quadro generale di 13 anni di istruzione, che non degli ultimi 5. Più preoccupante è, invece, la talora mancata acquisizione di abilità al di là dell’esame, come ha sottolineato una maturanda del Linguistico: “Nonostante sia soddisfatta del Liceo che ho fatto, non posso dire di aver raggiunto i risultati sperati. Dopo cinque anni sono perfettamente in grado di parlare in lingua della letteratura di tre Paesi diversi, e su questa competenza sono stata esaminata: ma se mi trovassi a conversare con un madrelingua, non so con quanta facilità mi saprei muovere”.
In generale, comunque, le prove che finora i maturandi ci hanno raccontato non hanno costituito un ostacolo insormontabile: sono sembrate adeguate rispetto alla preparazione offerta durante l’anno e coerenti con il percorso scolastico. “La maggior parte del lavoro lo svolge lo studente, ma l’insegnamento di base dato dai professori è comunque molto solido” chiarisce Emanuele, studente del Liceo Scientifico. E non è l’unico ad attribuire al singolo alunno gran parte della responsabilità, insieme ad una serie di caratteristiche fondamentali indipendenti dal lavoro dei professori: “Credo che un buon andamento scolastico dipenda in gran parte dal carattere dello studente, ma anche dall’educazione ricevuta in famiglia, fin dai primi anni di vita – afferma convinta Martina, maturanda del Classico -. Chi, in casa, non è abituato a far sentire la propria voce, a darsi da fare in maniera attiva e a destreggiarsi autonomamente in situazioni a volte complesse non sarà in grado di farlo a scuola”.
Susanna Porrino