La Gran Bretania e la Francia, con numerosi altri Paesi europei, hanno sfidato Trump e Netanyahu sulla guerra di Gaza, riconoscendo ufficialmente all’ONU lo Stato della Palestina: un atto politico forte, non formale, contro la linea di Tel Aviv e della Casa Bianca che rifiuta anche solo l’ipotesi di “due Stati, due Popoli” nella terra di Cristo, che intende deportare due milioni di palestinesi, che continua un conflitto orribile (contestato anche nel mondo ebraico) approfittando della stoltezza sanguinaria dei terroristi di Hamas. L’obiettivo finale di Tel Aviv, come hanno dichiarato i due ministri ultra-ortodossi della Destra, è la creazione della Grande Israele, anche con l’annessione della Cisgiordania.
In questo scenario drammatico il Governo Meloni è assente: a parole si dichiara per i “due Stati”, in pratica non fa nulla perché mancano le condizioni; dimentica che proprio la guerra a Gaza – come ha dichiarato Netanyahu – impedirà i “due Stati”. Siamo nella linea di Ponzio Pilato: vorrei, ma non posso. Ma l’Italia merita questa marginalità geo-politica, avendo sempre sostenuto – anche con le dichiarazioni della Chiesa italiana – che la Terra Santa è la culla delle grandi religioni monoteiste, ebraica, cristiana, mussulmana? E come praticare la via dell’amore contro l’odio – come chiede Papa Leone XIV – se i Palestinesi debbono essere espulsi dalla Cisgiordania e da Gaza (dove qualcuno pensa a realizzare resorts da Costa Azzurra)?
Anche l’ultima proposta della Meloni – “Sì alla Palestina se Hamas libera gli ostaggi e poi scompare” – sembra un altro modo per rinviare la scelta. La Meloni sta preferendo il ruolo di leader della Destra anziché quello di presidente di tutti gli italiani: mai una critica netta a Trump (anche quando, ai funerali di Kirk, rivendica l’odio verso i suoi avversari), silenzio su Salvini quando difende Israele smentendo apertamente il ministro degli Esteri Tajani.
Nei sondaggi la larga maggioranza degli italiani non condivide la linea Trump-Netanyahu. Nella vita reale le molte manifestazioni popolari pro-Palestina hanno raccolto una vasta adesione, anche se sono state “sporcate” da gravi manifestazioni di violenza da parte di gruppi anarchici o elementi dei centri sociali. Un regalo ai fogli pro-Trump della Destra.
Problemi gravi di politica estera si registrano anche sull’Ucraina: dopo l’incontro con Trump in Alaska, anziché la tregua, Putin ha intensificato gli attacchi alla popolazione ed ora, con velivoli e droni, viola gli spazi aerei dell’Europa orientale; secondo alcuni media americani (Blomberg) lo Zar avrebbe avuto un sostanziale “via libera” della Casa Bianca. Sull’Ucraina la Meloni e Tajani stanno con Kiev, ma l’inerzia di Trump non può essere taciuta (cosa aspettiamo, i droni sui tetti di Roma?). Ed anche l’abbraccio del vice-premier Salvini con l’ambasciatore russo alla Festa per la Cina non può essere ignorato: una cosa sono le corrette relazioni diplomatiche, un’altra l’aperta simpatia con il rappresentante di un Paese aggressore.
Su Putin anche l’area riformista del Pd ha contestato con la Schlein la linea “neutralista” dell’alleato M5S, molto distante dalla tradizione europeista dem; si rischia un accordo di facciata, con programmi diversi. Critiche anche sulla gestione verticistica del partito, sullo sguardo “solo” a sinistra, sulla scarsa attenzione per l’area catto-dem (ultimo episodio: le leggi sull’eutanasia delle Regioni Toscana e Sardegna hanno seguito il canovaccio dell’Associazione radicale Coscioni).
Dulcis in fundo: dopo le Regionali l’area riformista avrebbe in animo di rimescolare le carte nel “campo largo” proponendo le “primaria” per la scelta dell’anti Meloni: oltre alla Schlein e a Conte, scenderebbe in campo la neo-sindaca di Genova, l’ex campionessa olimpionica Silvia Salis, il cui motto è: “sono madre, sono cattolica, sono moglie” (il richiamo, diverso, alla simbologia della Meloni non è causale). Una candidatura sul solco prodiano di intesa tra sinistra e riformisti, una sfida indiretta sia alla Schlein sia alla premier. Una politica, sempre al femminile, divisa in tre, un segnale ulteriore del cammino difficile del bipolarismo all’italiana.