(Fabrizio Dassano)
Venticinque marzo 1750, giorno di Pasqua: dopo la funzione solenne “Carlo Vittorio delle Lanze, cardinale ed abate commendatario di S. Benigno, personaggio molto benemerito, pone la prima pietra della chiesa abbaziale di S. Benigno, monumento della sua generosità, racchiudente pitture assai pregievoli.
È tanta la venerazione a questo cardinale, che il popolo lo tiene per santo; nelle annate febbrose non è raro che qualche superstizioso vada a raspare polvere della sua tomba, ingoiandola quale medicamento. La venerazione ai benefattori degenera sovente in fanatismo superstizioso”. Così scriveva Antonino Bertolotti di Lombardore, lo storico del Canavese nel 1870, gettando una luce sull’ultimo periodo di splendore della Fruttuaria di San Benigno, che sicuramente costò caro a livello architettonico ad uno dei luoghi più importanti del monachesimo occidentale, intervento architettonicamente radicale che portò nuova vita al luogo. Fino all’anno 1000 la piana alluvionale fra i torrenti Orco e Malone era ricoperta dalla selva Gerulfia: boschi, acquitrini, gore e villaggi di origine longobarda.
Nel 1003 Guglielmo, conte di Volpiano, iniziò la costruzione dell’Abbazia di Fruttuaria “madre di frutti della terra e della fede”. Dalla Francia Guglielmo portò le reliquie dei santi Benigno, Tiburzio e Feliciano e i nuclei di artigiani e lavoratori sorti intorno al cantiere diedero vita al villaggio di San Benigno. Divenne presto famoso per l’osservanza della “Regula Santi Benedicti”. Le donazioni raggiunsero livelli internazionali e l’Abbazia possedette beni, castelli, villaggi, chiese in Piemonte, Lombardia, Emilia, Veneto, Corsica, Francia e Austria donati da re Arduino, Ottone di Borgogna, Roberto II di Francia, Corrado il Salico ed Enrico II di Germania. Stanco di menare la spada qui si ritirò re Arduino nel settembre del 1014, vivendo come un semplice monaco fino alla morte. Nel convento femminile visse Berta, moglie di re Arduino e santa Libania di Barbania e pure Agnese di Borgogna, vedova dell’imperatore Enrico III e madre di Enrico IV.
La crescita dell’Abbazia raggiunse livelli alti, arrivando a contare 1200 monaci. Ma dal ‘300 l’insegnamento e la fede cluniacense di Guglielmo si erano ormai raffreddati. L’enorme ricchezza accumulata e il mondanesimo portato da abati, rampolli cadetti di famiglie comitali, cancellarono il severo “ora et labora” di San Benedetto.
Le figure di Ugone e Maiolo, splendidi abati, erano solo più ombre. Nel 1477 Papa Sisto IV, stanco della situazione, levò il potere ai monaci di nominare l’abate e relegò l’Abbazia a commenda dipendente dalla Santa Sede per la nomina dell’abate. Dopo le guerre del Canavese che investirono l’Abbazia nel 1339, nel 1476 San Benigno fu razziato e incendiato dai soldati di Galeazzo Sforza. La commenda fece altri danni: dal Cinque al Seicento gli abati furono designati in seno alla medesima famiglia dei Ferrero Fieschi, spesso anche vescovi di Ivrea e l’epilogo vide solo più presenti 8 monaci nel 1583, quando Papa Sisto V intervenne sopprimendo il monastero.
L’ultimo monaco, don Antonio Mollo di Busano, morì nel 1634. A loro subentrò una collegiata di sacerdoti diocesani fino all’impero di Bonaparte. Però rimaneva un nucleo di terre e ricchezze ancora appetibile. Per questo Papa Clemente VII autorizzò la zecca di Montanaro a battere moneta fino al 1582.
Dopo i Ferrero Fieschi subentrarono i Savoia con cinque cadetti per due secoli: dal Sei al Settecento, trascurando le consuetudini e i privilegi del monastero, fino a che nel 1710 il duca Vittorio Amedeo II invase militarmente quelle terre che sfuggivano al controllo diretto dello stato assoluto piemontese. Si creò una guerriglia che durò trent’anni fino a che Papa Benedetto XIV rinunciò al potere temporale, avuta fin dal 1019 su San Benigno, Feletto, Lombardore e San Giusto, in favore dei Savoia.
Ma fu proprio in quel giorno di Pasqua del 1750 che l’Abbazia visse il suo ultimo sprazzo di fama: il suo ultimo commendatario, il cardinale Carlo Vittorio Amedeo delle Lanze, vi “regnò” dal 1749 al 1784, anno della sua morte. Chi era costui?
Nacque a Torino nel 1712 da Carlo Francesco Agostino, conte di Sale e di Vinovo, figlio naturale di Carlo Emanuele II di Savoia, e da Barbara Luigia Piossasco di Piobesi. Suoi padrini di battesimo furono lo zio paterno, Vittorio Amedeo II duca di Savoia, e la consorte di lui, Anna Maria d’Orléans. Morta la madre, fu condotto a Chambéry dal padre che era stato nominato governatore di Savoia. Ma non condusse proprio una limpida condotta finanziaria e politica (oggi si chiamerebbe abuso d’ufficio) e nel 1724 fu condannato a morte in contumacia e alla confisca dei beni, ma lui si era già stabilito a Bologna.
Il figlio intanto era stato avviato alla carriera militare. Era nei Paesi Bassi, quando nel 1730 seppe che Vittorio Amedeo II aveva abdicato. Dall’Aia scrisse il 17 settembre al cugino e nuovo sovrano congratulandosi; ma un mese dopo gli annunziava la decisione di troncare ogni carriera mondana per entrare fra i canonici regolari di Sainte-Geneviève a Parigi. In quegli anni quel luogo aveva acquistato notorietà come luogo di penitenza e focolaio giansenista. Richiamato dal padre, Carlo si trasferì a Roma presso l’Accademia ecclesiastica fondata da Clemente XI, dove i giovani nobili si preparavano alle più alte cariche della prelatura ecclesiastica. Ricevuto il suddiaconato a Tivoli nel 1731, rientrò l’anno dopo in Piemonte.
Maggiorenne, riebbe i feudi paterni a eccezione di Vinovo e conseguì il baccellierato in teologia presso l’università degli studi di Torino. Il 23 settembre 1736 celebrò la sua prima messa a S. Dalmazzo, la chiesa di Torino dai barnabiti. Legato al mondo universitario, usava destinare parte dei suoi averi a sostegno di giovani studenti fino al conseguimento della laurea. La sua casa era luogo di riunione per quanti si appassionavano a questioni attinenti la riforma della Chiesa e il movimento giansenista. Per questo il giovane abate era tenuto d’occhio dai gesuiti.
Il riavvicinamento tra la corte di Roma e quella di Torino portò, come garanzia di lealismo e di ortodossia, al licenziamento dei filo giansenisti e Carlo Vittorio si ap-poggiò all’ala più chiaramente ortodossa che nel mondo universitario torinese aveva come figure di un certo spicco i due barnabiti, il Luciardi e il Gerdil, e il teatino Michele Casati. Dopo il concordato del 1741, fu possibile in Piemonte riorganizzare l’apparato ecclesiastico mediante un più intenso intervento dello Stato. Una serie di regie nomine misero Carlo Vittorio in possesso di pingui abbazie. Nel 1743, ebbe l’abbazia nullius di S. Giusto di Susa, a cui ebbe aggiunta in commenda quella di S. Maria di Lucedio nel 1747. Rinunziato a S. Giusto, ebbe nel 1749 l’abbazia nullius di S. Benigno di Fruttuaria.
Il giovane abate, in cui scorreva sangue regio, volle subito dare prova che non si trattava di mera questione di rendite. Compiuta in Val di Susa la visita pastorale delle dodici parrocchie della sua giurisdizione, tenne il sinodo nell’aprile del 1745, chiamandovi quali giudici ed esaminatori sinodali un folto gruppo di professori e dottori collegiati dell’università di Torino.
Le deliberazioni adottate s’inserivano nella politica sabauda che mirava a tradurre in statuti disciplinari omogenei gli indirizzi dell’insegnamento universitario ufficiale. Tra l’altro fu condannata l’usura nei termini sostenuti da Benedetto XIV; fu abbandonato il Catechismo del Bellarmino e fu adottato quello di Bossuet, tradotto anche in italiano e più rispondente, oltre che all’insegnamento universitario, al bilinguismo e alla cultura italo-francese degli Stati sabaudi di terraferma; fu inoltre richiamato l’obbligo di usare le rendite ecclesiastiche per il decoro del culto e a sostegno dei poveri.
Agli stessi orientamenti s’ispirò il Gran Sinodo che Carlo Vittorio tenne a San Benigno Canavese, il 20, 21 e 22 giugno 1752. A San Benigno egli usò tenere ciascun anno assemblee sinodali. Istituito il seminario con atto notarile del 16 ottobre 1749, ne fece l’erezione canonica con decreto sinodale del 16 settembre 1762. Nel volgere degli anni i seminaristi, dalle classi inferiori fino a quelle di teologia, raggiunsero la quarantina. Fu nel 1750 che impegnò l’architetto Bernardo Vittone a costruire una nuova chiesa abbaziale e un palazzo prelatizio adibito anche a seminario.
Dopo la consacrazione episcopale e la nomina cardinalizia presentò le dimissioni dalle cariche sabaude e la sua carriera proseguì in diversi ambiti pur appartandosi a S. Benigno, ma a corte era tutt’altro che assente.
Carlo Vittorio trascorse i suoi ultimi anni a S. Benigno, visitando e beneficando le famiglie povere dei locali. Vi chiuse i suoi giorni il 25 gennaio 1784. Con la Restaurazione Papa Pio
ricostituì la commenda e nel 1867 il governo italiano si propose di vendere gli edifici. Ma non aveva fatto i conti con il vescovo di Ivrea, Monsignor Moreno che ingaggiò una battaglia legale senza esclusione di colpi e in dieci anni riuscì a far dichiarare l’Abbazia e il palazzo di San Benigno monumento nazionale. Passato al comune di San Benigno nel 1878, l’edificio venne affidato a San Giovanni Bosco che lo adibì ad istituto professionale, fino ad oggi.