(Editoriale)

Per incontrare bisogna uscire avendo manifestamente la voglia di farlo; sono movimenti entrambi faticosi perché richiedono di mettersi in gioco, lasciarsi sfidare e provocare: condizioni indispensabili per crescere e aiutare a crescere.

La strada è sovente in salita e il sentiero è impervio.

È il sentiero della missionarietà, della prossimità in contrapposizione all’autoreferenzialità del parlarsi addosso che non disturba nessuno.

Questa, oggi, è strategia perdente, nell’epoca – pur con i suoi limiti e le sue contraddizioni – in cui tutto si vede, si sente, si tocca, appare e sparisce veloce come il fulmine.

Da sempre i tesori nascosti non fruttificano, la merce nel ripostiglio non si vende, i valori occultati non resistono al tempo. Il declino.

Sulla tragedia di Caivano, il parroco don Patriciello ha detto tra l’altro: “occorre tentare di dare un pizzico di speranza ai giovani; pesare le parole sapendo che nulla mi sarà perdonato se dovessi pronunciarne qualcuna che a qualcuno non piace”.

Noi diciamo – unitamente all’Ufficio Nazionale delle Comunicazioni Sociali – che “troppo odio continua a trovare terreno fertile nel nostro Paese. Potrà essere fermato solo da un impegno congiunto che chiama alla responsabilità di ciascuno. Anche per chi opera nei media, perché sia promotore di una comunicazione pensata e che faccia pensare”.

Pensarci è dunque il nostro lavoro: ma per far pensare gli altri, i nostri giornali devono stare sulla pubblica piazza (e non in bui corridoi poco frequentati, come già scrivevamo due settimane fa) perché è sulla piazza che tutti passano e lì si incontrano, lì si suscita partecipazione e dialogo, lì si evidenziano le domande e le inquietudini della popolazione.

Informare vuol dire servire.

Per convincere, altri strumenti sono stati appositamente creati.