(Susanna Porrino)

Per una generazione in cui le serie TV sono forse la realtà comunicativa più immediata e famigliare, presente in maniera qua-si ossessiva nella quotidianità dei più giovani, è curioso notare che una delle serie più conosciute e amate del momento sia “La casa di carta”: il racconto di un gruppo di criminali di cui vengono narrate le vite e i preparativi per uno dei colpi più grossi della storia, in una narrazione in cui lo sguardo dello spettatore viene condotto con un’impercettibilità magistrale dalla prospettiva della vittima a quella dell’aggressore, trovandosi quasi senza accorgersene a fare il tifo per chi, nella vita reale, avremmo condannato senza esitazione.

L’arte non ha morale, né si lascia guidare dai giudizi e dalle convenzioni del tempo e della società in cui viene coltivata; ma la percezione che il pubblico esprime nei suoi confronti, e, nello specifico, lo straordinario successo che questa serie ha ricevuto, dice tanto sulla realtà che ci circonda.

Vale forse la pena chiedersi perché un regista abbia intuito che una serie di questo tipo avrebbe raccolto il favore del pubblico.

Certo non si tratta di un prodotto che inciti alla violenza o alla criminalità; ma, senza alcun desiderio di giudizio nei confronti di chi apprezza e ama anche questo genere di produzioni, penso che ci si possa domandare da dove provengano il desiderio o la capacità di lasciarsi travolgere da una narrazione che ci convince che quello del “cattivo” sia in realtà soltanto un altro punto di vista.

Pur immersi in quello che è diventato il palcoscenico su cui si dispiega una vita che altro non è che commedia e teatralità, un gioco intrecciato e di finzioni e immagini distorte che nella loro molteplicità faticano ormai a trasmetterci e comunicarci alcunché, una domanda va posta: per quale motivo non proviamo nessuno scrupolo né paura all’idea di assumere i panni e lo sguardo di un personaggio che uccide e danneggia le vite altrui per proprio interesse personale?

Personalmente penso che la solitudine interiore e profonda in cui l’uomo moderno ritrova, incapace di conoscersi e di essere in pace con se stesso e con gli altri, lo abbia reso sordo a qualunque tipo di giudizio esterno, perché già impegnato a combattere il senso di colpa e di continua frustrazione che dall’interno lo attanaglia. La paura di essere o sentirsi sbagliato a causa dei propri errori è stata sbrigativamente risolta con l’eliminazione del concetto di errore. Così, ogni gesto è diventato, appunto, l’espressione di un singolo punto di vista che in sé sarà sempre giustificabile.

Abbiamo miseramente fallito nel tentativo di separare l’individuo dalle sue azioni (il peccatore dai peccati) e per non discriminare l’individuo abbiamo smesso di discriminare anche le azioni. La vita come valore ha cominciato a venire portata sugli schermi in maniera sempre più distorta, circondata da una violenza ripetuta e costantemente rappresentata a cui con il tempo abbiamo avuto modo di assuefarci.

Intimamente, ci sentiamo oppressi senza saperne il motivo, e accusiamo di ciò la realtà che ci circonda, le leggi, i valori, le istituzioni… Il sapore seducente della trasgressione che il cinema ha saputo catturare ci attira e ci dà l’idea del raggiungimento di una libertà a cui aspiriamo, di quella desiderata liberazione dai vincoli morali e reali che ci sembra ci tolgano il respiro.

I mezzi comunicativi hanno imparato a leggerci e a soddisfare in un modo più o meno immediato i nostri desideri. Ma affinché essi non diventino una totalitaria allucinazione in grado di guidare il nostro pensiero in qualunque direzione possibile, occorre che ci riappropriamo della capacità di indagare e scrutare le nostre emozioni e i nostri reali sentimenti, perché la nostra empatia non venga riversata senza freni né barriere su uno schermo, ma si eserciti in una dimensione di consapevolezza e lucidità.