(Alessandro Crotta)

Con un crescendo di orrori la guerra proseguiva il cammino come e più di prima. I vari fronti si avvicinavano sempre più ai confini della Patria. Svanì presto il sogno in Abissinia; quello del Nord Africa si perse tra le dune del deserto Cirenaico; quello in Grecia, più che sogno, fu una chimera pagata assai cara. Più lontano, in quelle immense desolate steppe del Don e del Donetz situate ben oltre i confini del mondo, l’Armata Italiana in Russia, l’Armir, si era, da qualche tempo, disciolta come neve al sole.

In Africa, in maggio, si concluse la lunga, lunghissima agonia. Pantelleria fu occupata l’11 giugno, Lampedusa il giorno dopo e un mese e mezzo più tardi seguì lo sbarco in Sicilia. Con lo sbarco degli Americani in Sicilia – 10 luglio ‘43 fu l’inizio della fine. Successivamente gli Alleati sbarcarono sulla costa calabra. I disagi si sommarono ai disagi. La scarsità dei prodotti alimentari, e non solo quelli, peggiorò ulteriormente. La crisi dell’Annonaria divenne più acuta che mai.

Domenica 25 luglio ‘43 il Re accettava le dimissioni di Benito Mussolini e nominava, quale capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Per il crollo della dittatura fascista il giorno dopo, lunedì 26, si ebbero in tutto il Paese manifestazioni di esultanza. Martedì 27 lo scioglimento del Partito Fascista fece da corollario alla manifestazione del giorno prima. Lo scioglimento della Camera dei Fasci e delle Corporazioni fu sancito due giorni dopo. Pareva che tutto finisse e che ci si avviasse alla pace. Ma le vicissitudini della guerra continuarono tra incertezze e paure crescenti. Anche se lunedì 2 agosto ‘43 fu abolito il saluto romano, ciò non impedì che dalle 21,30 dello stesso giorno fosse proclamato il coprifuoco in tutto il Paese.

Alla notizia dell’arresto di Mussolini, noi ragazzi realizzammo, nel cortile principale del collegio, un piccolo falò che allietammo con un’improvvisata pantomima nel corso della quale bruciammo le tessere fasciste; tessere che ognuno di noi possedeva sin dalla prima elementare. Fu, la nostra, una forma di gioia abbastanza scontata. Il carattere imitativo di questo nostro giubilo, più che di protesta politica, della quale non potevamo per evidenti ragioni anagrafiche avere coscienza, non fece che esaltare la nostra voglia di vivere.

Una serie di avvenimenti segnarono poi definitivamente la sorte dell’Italia. La seconda settimana d’agosto, Milano, Roma ed altre città del nord subirono una serie di bombardamenti aerei notturni di grande intensità e ferocia: devastanti quelli del 13 agosto che nel capoluogo lombardo causarono numerose morti.

Allo sbarco degli alleati a Salerno il 9 settembre, tre giorni dopo seguiva, ad opera dell’ufficiale tedesco Skorzeny, la liberazione – dalla prigionia di Campo Imperatore al Gran Sasso – di Benito Mussolini. Mercoledì 15 Mussolini ricostituisce il Pnf e qualche tempo dopo instaura – con sede governativa in quel di Salò sul lago di Garda – la Repubblica Sociale Italiana (Rsi). Gli avvenimenti continuavano a sovrapporsi gli uni agli altri con crescenti incertezze. Le istituzioni civili e militari, si stavano sciogliendo una ad una. Come una nave in balia della tempesta, il Paese si sentiva abbandonato, scosso e prostrato: l’incertezza dilagante quanto contagiosa lo spingeva verso il caos più profondo. Il senso di vuoto era totale, assoluto.

Un accordo siglato segretamente il 3 settembre 1943, costituì l’atto con cui il Regno d’Italia cessava le ostilità contro le forze Angloamericane; atto che, successivamente discusso e variamente motivato, generò nel Paese scompiglio e smarrimento. L’annuncio simile dato dal generale Eisenhower qualche ora prima – di quello in precedenza concordato con le autorità di Governo -, aveva già causato inquietudine e gravi incertezze. Né le incertezze furono fugate da quanto riportò La Stampa il giorno dopo: “La guerra è finita. Badoglio annuncia alla Nazione che la richiesta di un Armistizio è stata accolta dal generale Eisenhower. Le forze Italiane cessano ovunque ogni ostilità contro gli Anglosassoni ma sapranno reagire contro eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.

In realtà, non si trattava di un Armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore al momento dell’annuncio pubblico, reso operativo l‘8 Settembre, dallo stesso generale Eisenhower da Radio Algeri alle 18,30. Poco più di una ora dopo, alle 19,42 confermato dal Proclama del Maresciallo Badoglio ai microfoni dell’Eiar.
Il proclama dell’8 settembre – un mercoledì – più che rassicurare gli italiani, li confuse; fu un proclama ambiguo, come incerte e ambigue furono le successive precisazioni. Di queste ambiguità, di questi comportamenti si parlò ancora non solo qualche anno dopo, ma decenni e decenni dopo, a bocce ferme […]

Con il Paese totalmente abbandonato dalle istituzioni e con le caserme della città in uno stato di abbandono totale, tra il 10 e 11 settembre ebbe inizio il loro sistematico saccheggio. Per i più opportunisti, o semplicemente per i meno paurosi, il bottino fu sostanzioso: farina, scatolame, scarpe, legname d’opera, legna da ardere, biancherie, coperte e indumenti militari di tutti i tipi e di tutte le fogge. Insomma, dalle gavette agli scarponi. […]

Dalle quattro caserme dislocate in città e dal distretto militare ci fu, in quei giorni, un continuo andirivieni di carriole e carrette colme di ogni ben di Dio. Le strette strade del centro storico intasate a dismisura da carrocci e carrette, divennero ancor più anguste. Ai più risoluti della prima ondata, si aggiunsero quelli della seconda e poi, senza distinzione di censo o ceto, altri. Era un vociare frammisto più di imprecazioni che di invocazioni, di bestemmie più che di preghiere. Con il crescere dei profittatori e il diminuire delle merci da depredare, l’impegno dei partecipanti al saccheggio delle caserme subì un balzo di qualità quanto mai significativo. Così, dalle prime furtive carriole, si passò alle carrette a mano. I più provvisti di mezzi di trasporto fattisi via via più arditi dall’assoluto vuoto di potere, impiegarono, anziché le proletarie spalle, i cavalli e persino qualche giogo di mucche.

Lasciate le impronte dei carri a perdersi nel fiume, uomini e cavalli finirono anch’essi ad aggregarsi a quell’anarchica vociante compagnia. Una variopinta processione di uomini, di donne e cose accompagnati da stridenti intermezzi offerti da alcuni benestanti della città. Questi, più provvisti di mezzi di trasporto idonei – camion a gasogeno – fecero una vera incetta di quell’incredibile, inaspettata manna. Era il caos mischiato a un senso di vuoto semplicemente indescrivibile… Così fu quel nostro Settembre 1943.