(Fabrizio Dassano)

Nello scorso numero, la storia del nostro giornale nel centenario de “Il Risveglio Popolare” ha solamente iniziato a toccare qualche tema “scomodo”, come la guerra in Africa Orientale Italiana nel 1935/36. Una guerra non appoggiata (contrariamente ad un persistente luogo comune storico) da Papa Pio XI, che però fu “benedetta” da alcuni ordinari diocesani locali in personale autonomia.

La guerra per la conquista dell’Etiopia oltre a condannare l’Italia alle sanzioni internazionali che non sortirono alcun rallentamento alla campagna militare, fu uno degli ultimi atti imperialistici in Africa di una potenza occidentale uscita vincitrice dalla Grande Guerra, ma nel contempo in crisi per l’enorme debito finanziario contratto con i propri Alleati, la lunga e difficile riconversione industriale, l’emorragia continua di forza lavoro verso il resto del mondo.

La guerra di Mussolini – continuazione di quella di Crispi del 1895/96 – avvenne anche dopo un’altra grande crisi occidentale, quella dei mercati finanziari del 1929.

Parlare di guerra è sempre difficile, ma parlare di guerre italiane è ancora più complicato. Fu anche un film a gettare un’efficace coltre disorientante sul concetto di guerra degli italiani: si chiamava “Italiani brava gente…”. diretto nel 1964 da Giuseppe de Santis e scritto da Ennio De Concini (quello della prima serie de “La Piovra”) e co-finanziato dall’ufficio cinematografico dell’URSS! Nella pellicola, ambientata nel quadro della disastrosa campagna di Russia nella Seconda Guerra mondiale, i soldati italiani appaiono come martiri e basta. Fu una grande operazione di decontestualizzazione della storia contemporanea buttata sul grande pubblico.

Noi lì in realtà c’eravamo per dare una mano a Hitler. Ma questo messaggio non ebbe nel film, quasi nessun peso. Il martirio di quei poveri giovani italiani tra i ghiacci di Russia prevalse sul far capire perché eravamo laggiù. Forse per un oscuro destino malevolo?

Forse che era stato un destino più favorevole a portarci tra il 1935 e il 1936 a conquistare l’Etiopia? Spesso spacciata come una specie di “opera missionaria” italiana, oppure dipinta come una sorta di avventura esotico-erotica-romantica nel Corno d’Africa, quella d’Etiopia fu in realtà una guerra con tutti i suoi annessi e connessi, compresi i gas, l’iprite, dal classico odore di mostarda, e il fosgene. Fu – militarmente parlando – l’unica campagna di successo dell’intero regime di Benito Mussolini per l’evidente gap tecnologico in armamento dei soldati etiopi.

L’operazione si concluse con la presa di Addis Abeba il 5 maggio 1936. Le due direttrici dell’attacco italiano provenivano una da nord, guidata da Pietro Badoglio con partenza dalla colonia Eritrea, e l’altra da sud est, con le truppe guidate dal generale Rodolfo Graziani che si mossero dall’altra colonia della Somalia Italiana.

Malgrado le controffensive delle forze etiopi, la grande manovra a tenaglia alla fine vinse la resistenza delle truppe dell’imperatore Hailé Selassié, anche se continuò la guerriglia degli “arbegnuoc” (i patrioti locali che appoggeranno gli inglesi pochi anni dopo, durante la conquista della colonie italiane in Africa Orientale Italiana da parte dei britannici nel 1941).

Le battaglie videro l’uso di gas iprite e fosgene contro le truppe etiopi. I fanti italiani le armi chimiche le avevano subìte e impiegate nel corso della Grande Guerra. Dovevano servire ad accelerare le operazioni militari. Nel pensare dell’epoca si trattava di un’arma come un’altra, di difficile impiego per via degli imprevedibili cambi di direzione del vento. Gli inglesi avevano usato i gas ancora nel 1931 a Sulainam, in Irak, per sopprimere il capo curdo Karim Bey, in rappresaglia all’uccisione di due funzionari britannici; e ancora nel 1935 in Afghanistan, lungo la frontiera con l’India, contro tribù pathane ribelli.

In Etiopia il regio esercito italiano le impiegò – su richiesta di Badoglio a Mussolini – in granate d’artiglieria per l’obice da 100/17 modello 1914 e la regia aeronautica nelle bombe C500T che scoppiavano a 250 metri d’altezza sull’obbiettivo spargendo il liquido sotto forma di goccioloni che precipitavano a terra su una superficie ellittica di 500 metri per 100.

Militarmente il gas non servì a nulla, nemmeno a demoralizzare gli etiopi che combattevano per difendere casa propria. Quando catturavano degli italiani, li eviravano. Ma l’effetto boomerang fu devastante sull’opinione pubblica internazionale col calo di prestigio delle forze armate italiane e del regime. Ci fu anche un caso in cui il comandante dell’aviazione militare, Mario Aymone Cat, nell’ordine di bombardamento ricevuto il 23 gennaio 1936, si “dimenticò” di far mettere sui bombardieri Caproni le bombe caricate a gas.

Anche tatticamente l’uso dei gas si rivelò un controsenso: l’iprite a terra è persistente anche per mesi e non solubile all’acqua: quindi bombardare un territorio in cui devono transitare truppe e logistica in avanzata con i nostri Ascari scalzi, fu come darsi la zappa sui piedi.