Foto: Borgo D’Ale – San Michele in Clivolo, Interno.

Le vicende politiche dell’età carolingia incisero profondamente nella realtà sociale dell’intera regione, con riflessi anche su quella ecclesiale. Re anche dei Longobardi, oltre che dei Franchi, Carlo Magno organizzò i territori dell’Impero secondo la tradizione germanica e lo governò per mezzo dei “conti” (comites). L’impero carolingio era suddiviso in circa duecento contee. Semplici funzionari con poteri giudiziari, fiscali e di ordine pubblico, con il tempo i conti diventarono signori del proprio territorio e ne trasmisero il possesso agli eredi.

Le marche, costituite nei territori di nuova conquista e comprendenti un gruppo di contee, avevano il compito di difendere i confini. In età carolingia, tra il regno di Borgogna e il regnum Italicorum venne costituta la Marca d’Ivrea (888), retta dal borgognone Anscario, che comprendeva gran parte dell’attuale Piemonte. In seguito (926), essa venne suddivisa in tre marche: quella di Torino, detta arduinica (da Arduino il Glabro), quella aleramica, del Monferrato, e l’obertenga, che si estendeva nella Liguria. Anche nella Marca d’Ivrea “i conti e i loro principali collaboratori erano quasi tutti franchi, sistemati nel paese da Carlo Magno e dai suoi successori insieme alle loro clientele di vassalli armati, con generose donazioni di beni fondiari provenienti da confische operate dopo la vittoria” (A. Barbero, Storia del Piemonte, p. 84).

Come Clodoveo e i re dei Franchi suoi successori, Carlo Magno era fortemente impegnato nell’affermazione del cristianesimo. “I metodi da lui usati per dilatare la dominazione franca e l’area cristiana furono, nella loro violenza, del tutto tradizionali: basti pensare alle sanguinose vittorie sui Sassoni, costretti al battesimo” (G. Tabacco, Il cristianesimo latino altomedievale, in G. Filoramo e D. Miguzzi a cura, Storia del Cristianesimo. Il Medioevo, Roma-Bari 1997, p.11). Carlo attribuì funzioni amministrative e giudiziarie anche ai vescovi delle città principali e agli abati di alcune grandi abbazie. I vescovi e i monaci, da parte loro, gli furono di grande aiuto nel promuovere quel rinnovamento culturale che è passato alla storia come “rinascita carolingia”. Circondato ad Aquisgrana da dotti ecclesiastici, tra i quali Alcuino di York, Carlo favorì in tutte le province la cultura e le arti, con la creazione di “scuole” e scriptoria.

Nell’Admonitio generalis del 789 stabilì, tra l’altro, che i membri del clero “riuniscano e tengano presso di sé non solo i bambini di condizione servile ma anche i figli dei liberi; organizzino scuole di lettura per i ragazzi in ogni monastero o vescovado”. Lotario, nipote di Carlo, istituì nel regno d’Italia una rete di “scuole”: “a Pavia, presso il maestro Dungalo, converranno gli studenti di Milano, Brescia, Lodi, Bergamo, Novara, Vercelli, Tortona, Acqui, Genova, Asti, Como. Ad Ivrea il vescovo provvederà egli stesso alle scuole.

A Torino converranno gli studenti di Ventimiglia, Albenga, Vado, Alba. A Cremona andranno a scuola quelli di Reggio, Piacenza, Parma, Modena. Firenze raccoglierà quelli della Tuscia” (Capitolare di Corleona, anno 825). Michele Curnis ha ampiamente illustrato, su queste pagine, l’importanza di questo evento: “La menzione “istituzionale” dell’episcopus fa intendere che l’amministrazione carolingia del regno d’Italia avesse individuato in questa figura il suo interlocutore più affidabile sul territorio di Ivrea, al punto da concedere il privilegio di essere sede di una scuola imperiale” (“Risveglio”, 25 settembre).

A metà del sec. V la comunità cristiana di Ivrea era già guidata da un episcopus, Eulogio. Essa continuò a crescere non solamente nella città, ma anche nel territorio, dove con gli antichi celti, ormai romanizzati, abitavano insieme ai discendenti di quei veterani dell’esercito, ai quali Roma aveva donato vaste porzioni dell’ager. Le diverse componenti della popolazione a poco a poco si amalgamarono tra di loro. Nella città di Ivrea, al di sopra di un tempio dedicato ad Apollo, era sorta una chiesa dedicata a Santa Maria.

È probabile che, sul modello di sant’Eusebio, il vescovo condividesse la sua abitazione con alcuni presbiteri, i quali lo coadiuvavano nel suo ministero all’interno della città e visitando periodicamente i fedeli sparsi nei villaggi (vici) e nei pagi rurali. Anche nel territorio diocesano sorsero alcune chiese, dislocate presso le principali arterie stradali. In alcune di esse il vescovo prese a stabilire, in un secondo tempo, una équipe pastorale. Sono queste le chiese plebane, che servivano alla popolazione (lat. plebs) di un ampio territorio.

Questa situazione si riflette in un documento del sec. IX, i Capitula eporediensia, attribuiti al vescovo Giuseppe. Si tratta di esortazioni e norme riguardanti i preti e il loro ministero. Le singole chiese sono affidate a un archipresbyter (arciprete), coadiuvato da preti e chierici che abitano con lui, insieme recitano le ore canoniche e celebrano la messa domenicale. È loro dovere predicare e istruire i fedeli, visitare gli infermi, insistere sul riposo festivo e sull’obbligo di assistere alla messa domenicale, opporsi alla magia e alla superstizione, far parte ai poveri delle decime ed esercitare l’ospitalità.

L’insieme delle norme “rivela un’organizzazione basata su poche chiese principali rette da arcipreti, presso le quali vive un clero plurimo” e che, “per la mancanza di chiese minori, conserva l’arcaico ordinamento del clero itinerante” (Aldo A. Settia, L’alto Medioevo, in Storia della Chiesa di Ivrea dalle origini al XV secolo, p. 105). Nell’alto Medioevo e almeno fino al sec. XI “la pieve funzionava come centro di raccordo e di raccolta di una popolazione che, sparpagliata in villaggi e case isolate, vi confluiva per ricevere il battesimo: per questa ragione, l’edificio sacro si trovava spesso lungo una importante via di comunicazione, o sulle sponde di un fiume, o nel fondovalle” (T. di Carpegna, Pievi, in Dizionario Storico Tematico “La Chiesa in Italia”, vol. I).

Dalle chiese plebane dipendevano le chiese minori, che in seguito diventeranno “parrocchie” (dal gr. paroikéõ, “abitare vicino”), ognuna dotata di un clero stabile e residente. Tale organizzazione appare definitivamente codificata in un documento del sec. XIV, il Liber decimarum, ma con molta probabilità essa risale all’età carolingia.

Oltre alle chiese parrocchiali della città e ad altre 15 del circondario, il Liber decimarum elenca le chiese plebane di Settimo Vittone, Areglio, Uliaco, Brosso, Lugnacco, Vespiola (ossia Baldissero), Doblazio di Pont, Rivarolo, Ozegna, San Martino, Candia, Vische, Rondissone e San Sebastiano nell’Oltrepò. Da ognuna di esse dipendeva un certo numero di chiese minori; per esempio da S. Maria di Areglio dipendevano le chiese di Alice, Azeglio, Borgomasino, Caravino, Cossano, Erbario, Maglione, Masino, Settimo Rottaro, Vestigné (cfr. A. A. Settia, L’alto Medioevo, pp. 86s e 104-106).

Le chiese plebane della diocesi di Ivrea sorgevano lungo le principali arterie stradali di età romana e alto-medievale: la via delle Gallie, la Pedemontana, con diramazioni per le valli del Chiusella e dell’Orco, la strada per Vercelli, quella per Quadrata (e di qui a Torino) e le altre due strade che superavano l’anfiteatro morenico: quella verso Rivarolo, e di qui a Torino, e quella verso Alice e Santhià.

Di origine transalpina sono i due vescovi eporediesi di età carolingia, dei quali abbiamo qualche notizia. Il vescovo Giuseppe, al quale si devono i Capitula eporediensia, era allo stesso tempo abate della Novalesa, l’abbazia fondata nel 726 da un alto funzionario del regno franco presso il valico alpino del Moncenisio. Giuseppe, che già apparteneva all’entourage di Lotario, re d’Italia e di Lotaringia, nell’844 era a Roma per l’incoronazione del figlio di Lotario, Ludovico II; l’anno seguente, ad Aquisgrana, ottenne due diplomi a favore del suo monastero e nell’850 presiedette a Pavia due sinodi regionali. Nella capitale del regno la chiesa eporediese aveva una dipendenza, la “cella” di S. Maria Maddalena d’Ivrea.

Uno dei suoi successori, Azo, è elogiato in un carme come vir magnificus, “nobile decoro della Chiesa”. Nella rinascita carolingia Ivrea è diventata un focolare di cultura. La scuola istituita a Ivrea nell’825 dal re Lotario è “segno indiretto ma eloquente del prestigio culturale goduto da quel vescovo, e della dotazione di libri della quale egli evidentemente doveva disporre” (A.A. Settia, L’alto Medioevo, p. 85). La Biblioteca Capitolare della diocesi “custodisce ancor oggi, provenienti dai due versanti delle Alpi, una trentina di codici del sec. IX” (M. Ferrari, Libri e testi prima del Mille, in Storia della Chiesa di Ivrea, I, p. 517).

Lotario I raffigurato in una miniatura dell’Evangeliario (849-851 circa).