(Editoriale)

Tirare sulla Caritas è anche facile, giustificare il perché si è tirato sulla Caritas comincia ad essere più complesso ed articolato. E il fatto che possa essere stata solo una battuta, non diminuisce lo sconcerto. Demonizzare chi si adopera per lenire il disagio sociale e le varie forme di povertà non è neppure elegante. Dire alla Caritas che la “pacchia è finita”, perché i tagli dei fondi governativi rende molto meno accessibile la partecipazione ai bandi statali e che quindi quando c’erano più denari tutto era fatto praticamente a scopo di lucro, è giungere ad una conclusione per una strada contorta, non conoscere la realtà delle cose oltreché un tentativo di demonizzare chi opera il bene. Partiamo dal fatto tecnico.

Non mi pare difficile da capire che quando un qualsiasi donatore chiude i cordoni della borsa coloro che ne implementavano le azioni avranno meno margine di azione e a volte quel margine si azzera completamente se non vi sono altri fondi propri disponibili. Decidere di non partecipare ad un bando può certo essere una presa di posizione “politica”, una protesta, contro il contenuto di quello stesso bando, magari per le azioni che obbliga a fare, per i tagli indiscriminati che contiene, per i contenuti che chiede di portare avanti e mille altre ragioni. Ma non parteciparvi può anche voler dire che se il contenuto di quel bando non garantisce di poter fare un intervento di qualità, è meglio lasciare perdere perché non vi sono le condizioni di dignità entro le quali operare. Un implementatore di interventi umanitari, sociali, educativi, di urgenza o di sviluppo che non può partecipare ad un bando per realizzare dei progetti in favore di chi è nel disagio, mette in crisi anche il donatore, soprattutto se si tratta dello Stato che deroga ad altri di fare i servizi, perché lo Stato stesso non ha la capacità di implementarli.

La reazione scomposta d’accusa verso l’implementatore al quale si imputa che quando operava lo faceva per business è passare su una strada traversa che non fa onore neppure a chi lo dice e a coloro che poi lo ripetono, credendoci pure.

“La Caritas è fatta di italiani che si spendono instancabilmente ogni giorno e la maggior parte sono volontari che lavorano a favore dei migranti e di tanti italiani in indigenza”, non lo dice solo mons. Stefano Russo, segretario generale della Cei, ma ce lo dice anche il nostro direttore della Caritas diocesana con i suoi 70 volontari a costo zero. Dov’è il business? Qui si tratta, ed uso ancora le espressioni di mons. Russo, “dell’azione straordinaria che tanti italiani fanno attraverso le Caritas diffuse su tutto il territorio italiano, fatte di tanta gente che si sporca le mani per andare incontro a situazioni di indigenza in cui cadono famiglie italiane e persone che provengono da altre nazioni”.

Il coraggio e la dedizione di così tanti volontari è appesantito da un giudizio grave di cui non si sentono parte, anzi che li offende e offende il loro servizio, insostituibile, com’è quello del Terzo Settore che toglie tante castagne dal fuoco ad uno Stato troppo sovente deficitario verso il disagio e le indigenze. Dov’è il business delle mense di solidarietà, dei progetti di accoglienza di famiglie disfatte, di carcerati in permesso, di giovani ragazze madri, di malati mentali, di accoglienza diffusa, uomini, donne, giovani accompagnati nella ricerca della loro dignità attraverso una riqualificazione professionale, una formazione adeguata ad un lavoro che continua ad essere cercato bussando con loro e per loro alle porte di imprese ed imprenditori?

E’ qui il Vangelo che si concretizza, che parla. Ma la solidarietà e il bene, alla luce del Vangelo e non della classificazione politica attribuita sovente arbitrariamente a chi ne parla, sono ancora dei valori o sono diventati piuttosto una colpa da perseguire? La dignità della persona è per ogni essere umano o viene attribuita per selezione a qualcuno si e ad altri no? Esiste davvero il disprezzo del povero e l’insofferenza verso chi se ne occupa? Stiamo veramente assistendo ormai alla guerra sociale scatenata dai penultimi verso gli ultimi e tra gli ultimi e gli ultimi lucrando consensi e mettendo in pace la coscienza indicando la povertà come una colpa? C’è veramente la volontà di indebolire e soffocare il Terzo settore (la cui riforma ancora attende una dozzina di decreti attuativi) e tutte quelle realtà (molte delle quali cattoliche, espressione del tessuto ecclesiale, proprio come le Caritas, che sopperiscono spesso alle negligenze e inefficienze dello Stato) che si fanno carico di chi non ha nulla, di chi è ai margini, di chi non porta voti né tanto meno vantaggi economici?

Gli occhi dei tanti cattolici che giudicano punitive della solidarietà le misure del governo vedono giusto a fronte dell’impegno sociale cattolico e la generosità che fu del popolo italiano sollecitato oggi a diventare egoista? Se la Caritas dovesse “cambiare mestiere” saremmo tutti più poveri.