(elisa moro) – Icona per i padri e i lavoratori, modello di obbedienza e silenzio, illustre per meriti, quasi padre del Re come canta la liturgia nel giorno della sua festa – padrone della sua casa e procuratore della Chiesa di Dio”, San Giuseppe rappresenta un compendio dell’immagine del “giusto” biblico, fedele a Dio, pronto a rispondere alla Sua Parola e al Suo disegno imperscrutabile.

Nel mosaico della Cappella Palatina di Palermo, terminata nel 1130 e consacrata nel 1140, si trova una splendida rappresentazione della “fuga in Egitto”, accanto al non meno celebre secondo “sogno di Giuseppe”. Nonostante la scena segua uno schema classico, che vede Maria seduta come Madre di Dio in trono (simboleggiato in questo caso dall’asino), il colore preponderante nell’intera opera è il bianco, segno di purezza, omaggio al padre putativo di Gesù.

L’artista ha voluto infatti mettere in risalto la figura di questo silenzioso uomo, mettendo proprio sulle sue spalle il Figlio, legandolo così al mistero della Croce e della Passione, anch’essa portata con obbedienza sulle spalle, rendendo così Giuseppe immagine dell’uomo che dona la sua vita senza riserve, nella totale verginità.

A partire da quest’opera si può allora guardare a San Giuseppe traguardandone la figura attraverso l’immagine di due piante: il giglio – che nel mosaico compare tra le mani dell’angelo in sogno – e la palma, quella indicata dal Figlio, e che da sempre identifica il giusto patriarca davidico.

Florete flores quasi lilium – fiorite fiori come il giglio” (Sir. 39, 14): nella tradizionale iconografia che caratterizza la figura di San Giuseppe, il giglio, fiore biblico, legato da sempre alla purezza, compare con particolare frequenza, quasi a rimarcare questa caratteristica, facendola diventare fondamentale.

San Giuseppe vergine, uomo casto: sembra un controsenso nel mondo attuale, dove il corpo e l’intera esistenza diventano icona tangibile di una “società fluida”, per citare il sociologo Zygmunt Bauman, di un’attenzione quasi morbosa a ciò che è effimero, momentaneo, trascurando il senso della preziosità della vita, di coltivare l’autenticità profonda e sincera, dimenticando le parole del Salmo che recita “l’uomo non è che un soffio, i suoi giorni come ombra che passa(Sal. 144, 4).

Ecco la sfida della verginità, già intuita splendidamente da Don Luigi Giussani, che parlando a dei giovani, diceva che

il vergine è figura del profeta per sua natura. È l’emblema della figura profetica che ognuno è chiamato ad essere ad immagine di Cristo; è affezione vera, generatrice nel mondo di punti sorgivi di verità e di gioia (cfr. Giussani, Il tempo e il tempio).

Non è dunque una semplice rinuncia fisica quella della verginità, ma uno sguardo nuovo e limpido sulla realtà, capace di consumarsi di amore, di soffrire e gioire, sapendo di non possedere, di non trattenere nulla per sé, lasciando sprigionare liberamente il profumo della purezza; è il cuore del discepolo, di chi vuole conformarsi a Cristo,

che ha scoperto che la rinuncia è la condizione della sua libertà, la solitudine dell’intimità con Dio, la povertà della sua carne il segno misterioso della sua ricca e impensata fecondità (Amedeo Cencini, p. 43).

La profezia della verginità, simboleggiata in San Giuseppe anche dai sogni, diventa allora emblema di uno stile di vita, che non diventa mai obsoleto, che non invecchia, prefigurando, invece, il destino futuro di ogni credente in Cristo:

Quod futuri sumus, iam vos esse coepistis – Quello che noi saremo un giorno, voi già cominciate ad esserlo (De habitu virginum, 22 PL 4); così Cipriano, un Padre della Chiesa, si rivolgeva alle vergini consacrate, considerandole come “profezia” vivente, anticipazione della Gerusalemme celeste.

Proprio così ha vissuto l’umile carpentiere di Nazareth, il giusto Giuseppe, anticipando, già nel suo pellegrinaggio terreno, quell’incontro definitivo con il Signore, che lui ha potuto stringere tra le braccia ed educare come uomo alla vita adulta.

Iustus ut palma florebit – il giusto fiorirà come palma (Sal. 92, 13): nel mosaico palermitano, Cristo non è seduto sulle gambe di Maria, ma si trova su una spalla di Giuseppe, mentre indica una palma, “smentendo” la profezia di Zaccaria che annunciava:

Esulta grandemente, o figlia di Sion, manda grida di gioia, o figlia di Gerusalemme; ecco, il tuo re viene a te; egli è giusto e vittorioso, umile, in groppa a un asino, sopra un puledro, il piccolo dell’asina(Za 9,9).

Questo particolare non è una semplice fantasia del mosaicista o non rimanda ad un preciso stile artistico del tempo: esso lega, in modo piuttosto preciso, la figura di Giuseppe al mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo.

Il Bambino Gesù indica un albero, la palma, prefigurazione del “dulce lignum” a cui sarà appeso, ma annuncia anche il giusto biblico, Giuseppe, curvo e affaticato, che sembra recare sulle spalle una pesante croce più che il corpicino del Figlio.

Non è però una scena di morte quella raffigurata perché l’albero della palma, con le sue foglie verdi e brillanti, richiama la vita, che niente può distruggere; la vittoria sulla morte, oltre ad essere segno di bellezza, eleganza, grazia e stabilità.

Ben radicato nel suolo, ancorato saldamente e tenacemente alla Parola di Dio, il giusto è quindi colui che, come la palma, si slancia verso il Cielo (Sal. 92, 13), aspirando all’infinito e donando frutti di una continua giovinezza(Turoldo – Ravasi, p. 442).

Nasce infatti dalla terra questo albero, come l’uomo che è tratto dalla polvere (cfr. Gen. 3,19), ma la sua cima, che si staglia nel cielo e simboleggia l’altezza (Sant’Agostino, Comm. Salmo 92), è preziosa, indicando la possibilità di elevarsi del cuore umano verso Dio (cfr. Lam. 3, 41).

Un cammino di ascesi, di salita verso la cima della palma, quello annunciato dal salmista, che Giuseppe ha percorso nel quotidiano, vivendo la propria personale passione nel compiere totalmente la volontà di Dio, conformandosi alla missione del Figlio con naturalezza e semplicità.

Lasciandoci plasmare da Cristo, sull’esempio di San Giuseppe, saremo davvero testimoni autentici e gioiosi dell’amore di Dio, permettendo, al fusto della nostra pianta, di crescere e produrre “molto frutto” (Gv. 15, 1) per la vita eterna.