(Fabrizio Dassano)

Stringe la milza il linguaggio che minuto per minuto ci sciorinano i mezzi di comunicazione che riportano le parole dei capi del pianeta e dell’occidentale bel paese: “Non siamo in economia di guerra…. ma dobbiamo prepararci”!

Allora, procediamo con calma: lo stato di economia di guerra è definito in maniera scientifica da Vera Zamagni come “adeguamento del sistema economico alle necessità della guerra”. Quando si verifica questa situazione, spiega Zamagni, “il problema economico è duplice: da un lato rendere disponibili risorse per gli armamenti, il mantenimento e la mobilitazione degli eserciti e, dall’altro, organizzare la produzione a sostegno della guerra.

Quanto più una guerra dura nel tempo, tanto maggiori saranno le risorse necessarie. Le fonti di finanziamento sono sempre state: le tasse dei cittadini, il debito pubblico (sia interno sia estero), le donazioni e l’inflazione. Il limite all’imposizione fiscale è dato dal livello di reddito dei cittadini: più povero è il Paese, meno può ricorrere a questa fonte. Anche il debito pubblico interno ha un limite analogo, mentre quello esterno dipende dalla credibilità che lo Stato richiedente prestiti ha e anche dall’interesse di soggetti privati o pubblici a finanziare la guerra in questione. Infine, l’inflazione conferisce agli Stati un potere d’acquisto immediato, che però causa notevoli problemi sul mercato monetario”.

“In generale – conclude l’economista –, una guerra finisce sempre, oltre che con imponenti perdite umane e distruzioni materiali, con un elevato debito pubblico e con un’inflazione che si fatica a riportare sotto controllo. L’altro aspetto rilevante dell’economia di guerra è dato dall’organizzazione produttiva: poiché si deve creare spazio a produzioni belliche, si restringono quelle civili, spesso introducendo forme di razionamento dei generi di prima necessità”.

Tralasciando il resto parliamo ora dei “pescecani di guerra”, cioè quei singoli o quelle categorie di mercanti che si arricchiscono a dismisura sulla guerra o sulla paura della guerra: parliamo quindi di noi poveri stupidi che dobbiamo fare benzina o gasolio o gpl per andare a lavorare e dei petrolieri e dei mercanti di energie che evidentemente fanno i furbi. Secondo il ministro Cingolani gli aumenti della benzina sono immotivati: ma davvero? Nella Prima guerra mondiale, quando non erano proprio stupidi come oggi, nacque l’epiteto “pescecani di guerra” proprio per indicare quelli che si arricchivano speculando sul prezzo dei beni di consumo.

Ora passiamo ad un’altra categoria: “gli sciacalli di guerra”: quelli più disperati che vanno a rapinare le case dei civili bombardate e abbandonate o i portafogli dei cadaveri dei soldati. I codici militari di guerra prevedevano la fucilazione sul posto in fragranza di reato, da noi abolita con la Legge 13 ottobre 1994, n. 589. Non mi risulta che siano mai esistiti codici militari di guerra che prevedessero la fucilazione dei “pescecani di guerra”.

E allora? Dovremo davvero montare di nuovo i pirogassificatori con quegli antiestetici bidoni che andavano a carbonella per muovere le nostre automobili ai 30 km/h? Ma soprattutto: che cos’è questa voglia di menare le mani con i Russi? Ma nessuno sa più cosa significa una bomba termonucleare? La non cultura sulle testate atomiche mi ricorda la neo-non cultura sull’Aids. Ho davanti agli occhi la donna incinta, ferita a morte che si tampona il ventre con la mano pochi minuti prima di morire. Lei e il figlio che porta in grembo.

Vediamo di stare calmi almeno noi, qui in Occidente.