Delusi e “svuotati” dal lavoro

(di Cristina Terribili)

Nel 1974, uno studioso statunitense osservò e per primo descrisse la condizione fisica ed emotiva di alcuni operatori impiegati in una istituzione psichiatrica. Notò che alcuni tra gli operatori più motivati, dopo il primo anno di lavoro, mostravano un comportamento annoiato verso le attività che diventavano routinarie, svuotate di ogni entusiasmo.

Definisce, dunque, il burnout, quello “stato di frustrazione nato dalla devozione ad una causa, da uno stile di vita, da una relazione che ha mancato di produrre la ricompensa attesa”. Lo psicologo ci dice proprio che chi ha cominciato con passione ed entusiasmo ma non ha ricevuto in cambio un risultato positivo dall’impegno profuso, dopo un certo periodo “crolla” e va in burnout. La psicologia sociale e clinica si interessa molto al fenomeno proseguendo con ricerche e studi. La condizione di burnout si chiarisce sempre meglio.

Nel 1994 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) inserisce il burnout nella decima edizione della classificazione internazionale delle Malattie, nell’appendice riguardante i ”fattori che influenzano lo stato di salute e il contatto con i servizi sanitari” e tra i “problemi correlati a difficoltà nella gestione della propria vita”.

Lo scorso 28 maggio invece, l’OMS ha definito il burnout come una sindrome che si sviluppa in conseguenza dello stress cronico sul posto di lavoro, che non è stato gestito con successo e che è caratterizzato da tre dimensioni: sentimenti di esaurimento o di mancanza di energia; allontanamento mentale dal proprio lavoro, vissuti negativi o cinismo verso il proprio lavoro; ed infine ridotta efficacia professionale. Il burnout si riferisce specificamente ai fenomeni nel contesto lavorativo e non dovrebbe essere applicato per descrivere esperienze in altri ambiti della vita.

L’OSM si sta adoperando per sviluppare delle linee guida per favorire il benessere mentale nei luoghi di lavoro, elaborando un piano che andrà in vigore nel 2022. Nel frattempo possiamo soffermarci a riflettere sulle cause e sui fattori che portano a sviluppare questa sindrome. Sono stati evidenziati fattori individuali e variabili legati all’organizzazione. Tra le variabili individuali c’è la qualifica professionale: tutte le persone che hanno a che fare con le professioni “di aiuto” sono considerate a maggiore rischio rispetto a chi svolge professioni maggiormente tecniche.

La relazione di aiuto porta l’operatore a coinvolgersi di più nella relazione con l’altro e per questo è a rischio di “depersonalizzazione”, cioè di aumentare la distanza tra l’operatore e l’ambiente di lavoro, comprese le persone. Ci sono poi fattori di personalità, tra cui introversione, timidezza, tendenza al diniego e all’evitamento, alla razionalizzazione, alla percezione di non sentirsi accettati o integrati nelle dinamiche, alla fuga dai problemi.

Tra i fattori legati all’organizzazione troviamo invece variabili intrinseche al lavoro (ad esempio lavori lunghi e non socializzanti, presenza di turni di lavoro, ripetitività, superlavoro, pericoli di incidenti o infezioni, compiti particolarmente difficili), oppure variabili correlate alla struttura organizzativa (come mancanza di autonomia/eccessivo controllo, scarso coinvolgimento decisionale, scarsa comunicazione a tutti i livelli, scarse opportunità di relazioni con i colleghi, mancanza di feedback, cambiamenti troppo repentini), o ancora possiamo evidenziare variabili correlate alle prospettive di carriera (basso stipendio, mansioni duplicate, sicurezza del posto di lavoro) o infine variabili correlate al ruolo istituzionale e di tipo interpersonale (conflitto e ambiguità di ruolo, per intenderci).

Se si è consapevoli di essere in una condizione di burnout personale si può intervenire con il sostegno da parte del gruppo o da persone esterne, con competenze sul piano relazionale e psicosociale e sviluppare uno stile di vita soddisfacente che permetta di prendere la giusta distanza dal mondo del lavoro.
L’importante, sempre e comunque, è non restare soli.