(Cristina Terribili)

Recentemente, sui social, sono fioccati molti commenti sulla serie di Netflix “Squid Game” (letteralmente, “Il gioco del calamaro”). È una serie sudcoreana che, visto l’immediato successo ottenuto, non è stata neanche tradotta in italiano e si può vedere in lingua originale o inglese, con i sottotitoli in italiano. Se ne parla tanto perché, insegnanti e pedagogisti, hanno messo in luce come tanti bambini imitino i giochi presenti nella serie televisiva con tanto di finale tragico (come presentato nel trailer, se ti muovi giocando a “un-due-tre, stella”, la grande bambola con sensori di movimento ti elimina… sparandoti), sostenendo che andrebbe vietata ai minori di 14 anni.

Alberto Pellai, noto medico e psicoterapeuta, ha posto l’accento sull’utilità della censura in casi come questo, tenendo presente lo sviluppo cerebrale del bambino e della sua capacità/incapacità di disgiungere alcuni fatti da altri.

Per mantenermi aggiornata su quanto ruota intorno al mondo dei ragazzi, anche io ho deciso di vedere la serie e penso che questo prodotto televisivo, fatto molto bene peraltro, si snoda intorno a tanti temi su cui anche gli adulti fanno fatica ad esprimere un proprio pensiero. Se dovessi fare una lezione sui meccanismi dell’azzardo patologico, sull’usura, sceglierei sicuramente alcune delle scene di quella serie per mostrare come si concretizzano alcune dinamiche. Ma la serie non è solo quello: nell’intreccio ci sono tanti messaggi molto più sottili e che si muovono su un filo di valori che vacilla di fronte alle condizioni umane.

La Corea del Sud sta vivendo un periodo complesso, in cui la differenza di classe comincia a farsi sentire pesantemente. Il regista coreano Bong Joon-Ho è riuscito a descrivere questi scenari già nei suoi film e, con “Parasite” (che ha vinto sia la Palma d’oro a Cannes, sia l’Oscar 2020 come miglior film) si è aperto ad un pubblico più ampio, per raccontare i pensieri, i sentimenti e le paure di due mondi sociali differenti. Ovviamente le scelte che i protagonisti mettono in atto per risolvere le tensioni non sono mai resilienti, non prevedono mai l’accordo, così come spesso accade nella vita reale, ma sono piene di risentimento, aggressività, cecità…

Spesso la televisione è stata il capro espiatorio di tante mancanze degli adulti nei confronti dei ragazzi. Ricordo quando i robottoni “Jeeg Robot” o “Goldrake” venivano criticati quali veicoli di violenza, rimandando ai giochi popolari, quell’anelito di bellezza, di pacificazione.

In realtà, molti giochi dell’infanzia non sono esenti da aggressività, dal rischio di farsi male, dalla competizione, dal fatto che vince uno a sfavore di un altro. La differenza, sempre e comunque, la fa l’adulto di riferimento, quello che guarda cosa accade. Se l’adulto è presente e accoglie, educa, prende spunto da quanto accaduto per far riflettere, per insegnare strategie alternative, per spiegare che in ogni gioco si vince e si perde (e che forse non si perde mai del tutto se si rispetta l’avversario), i bambini potranno continuare a giocare tanto al tiro alla fune quanto ai giochi elettronici.

Se l’adulto si confonde, perché non sa muoversi nella sottile linea che separa il qualunquismo dalla partecipazione attiva e cooperativa, allora serie come “Squid game” possono essere potenzialmente pericolose per tutti. Che poi gli adulti debbano mettere dei filtri ai contenuti che possono vedere i loro figli, quello è un altro discorso: fa parte della responsabilità genitoriale che va dalla serie televisiva all’abbigliamento passando per l’alimentazione e oltre.

Spiegare, mettersi all’altezza del bambino e parlargli con calma e con fermezza, del perché delle proprie scelte anche se impopolari, resta sempre il compito più complesso da svolgere.