Co-housing, co-living, co-working: come cambia l’idea di casa

(Cristina Terribili)

ROMA - “Comprano una villa per stare insieme tutta la vita: la scelta di sette amiche”: questo il titolo di una notizia apparsa sui social e subito una sfilza di tag, persone che si passano la notizia per pensare a come organizzarsi, chi aggiunge anche qualche altro nome, chi porge inviti ad altri amici, e chi si accorge che ha difficoltà a trovare sette amici con cui condividere una casa.

Chi ricorda le esperienze degli anni ’70, non avrà difficoltà ad immaginare un ritorno alla “Comune” dove, per l’esigenza di trovare spazi e modi di vivere diversi da quelli delle famiglie classiche dell’epoca, decine di ragazzi, spesso molto giovani, trovavano dimensioni e crescite personali più idonee ai cambiamenti sociali in corso. Spesso le comuni erano paragonate a luoghi di perdizione, dove si praticava l’amore libero, si usavano sostanze stupefacenti e si viveva fuori dalle regole a contatto con la natura (la grande Comune di Ovada, nel Monferrato fu, per esempio, sgomberata più volte).

Oggi vediamo nascere modalità diverse di vita in comune: si chiamano co-housing, co-living, co-working. Che cosa sono?

Per provare a capirlo va premesso che indubbiamente la società sta cambiando, l’idea stessa di famiglia (e di lavoro) si è modificata nel tempo. Nello specifico, il fenomeno della scelta di coabitazione interessa coppie più o meno giovani senza figli, coppie o single con figli che lavorano all’estero, single tout court, separati con un reddito modesto, uomini e donne che per le ragioni più svariate – tra le quali l’essere soli – non sentono più la necessità di trovarsi in un luogo specifico, tutto proprio, per continuare a vivere e svolgere le loro mansioni. Ma si tratta anche di chi sente il bisogno e il desiderio – tutto nuovo – di stare insieme ad altri, fare gruppo, fare comunità, partecipare insieme alla costruzione di qualcosa di diverso tra i giorni che passano.

Una società così eterogenea ha bisogni diversi dal punto di vista fisico, professionale, psicologico, economico e che non trovano risposta nell’abitare urbano o rurale tradizionale, così come lo conosciamo. C’è chi acquista una casa con altri amici per condividere sia le spese sia la vita: ognuno ha la propria stanza ma la cucina, i bagni le zone giorno sono in comune, permettono di ritrovarsi la sera, di non sentire l’angoscia della solitudine e per chi si avvicina alla terza età, di non avere il rischio di essere trovato morto nella propria abitazione svariati giorni dopo il decesso.

Il co-housing si basa sulla condivisione di aree e spazi, ma anche di competenze e capacità tra vicini. Anche questa esperienza ha origini nel nord Europa tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. All’interno di piccoli villaggi, a volte costruiti appositamente per lo scopo, le persone cercano di rendere la qualità della loro vita migliore, mettono insieme obiettivi e regole, si organizzano in modo tale da poter accedere a servizi – la palestra o la biblioteca che si possono trovare in una casa privata o in uno spazio comune, che tutti si impegnano a mantenere in ordine e pulito – o ad un sistema di mutuo aiuto tra vicini che rende l’esistenza più sostenibile (l’esempio della badante di condominio o del micro nido).

Il co-living si caratterizza per il fatto di essere uno spazio dove le persone possono dormire ma anche lavorare insieme. Nello spazio di co-living si lavora, si dorme, non in tutte le strutture si mangia, ma si possono organizzare eventi, mostre, seminari, e ovviamente si possono trovare idee e partners per un progetto lavorativo. Ovviamente anche in questo caso esistono regole ben precise di convivenza.

Il co-working è una bella soluzione per chi ha bisogno di una postazione di lavoro diversa dall’ambiente domestico. In questo caso si “affitta” uno spazio in un’area dove lavorano contemporaneamente altre persone e dove possono esserci servizi comuni e condivisi di segreteria, di recapito corrispondenza, di una sala riunione e così via.

Dagli anni Settanta ad oggi allora cos’è cambiato? È nato il desiderio di sperimentare una vita più civile, sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale. Ed è stata abbandonata l’anarchia a fronte di regole precise, perché chi desidera vivere o confrontarsi in questi contesti deve possedere un senso etico e civile maggiore di altri. Laddove poi la convivenza fosse complicata, spesso nel co-housing, c’è la figura del facilitatore che ha il compito di mantenere l’armonia tra tutti.

In Italia sono ancora esperienze poco diffuse, ma non tarderanno a svilupparsi perché offrono un alto potenziale di condivisione, di crescita (individuale e collettiva) e di sostenibilità.