(di Cristina Terribili)

Quello che rimane è uno sparo che riecheggia nelle orecchie, è l’immagine di un corpo che cade, è l’immagine del sangue, è percepire ferocemente l’irrimediabilità di un gesto.

Se da una parte c’è un corpo che ha smesso di funzionare, dall’altra ce n’è uno che vede e sente tutto. Sente il dolore fisico della violenza che lo atterrisce, le emozioni in subbuglio che generano pensieri orribili. Alcuni di questi ti portano alla realtà, una realtà strana che è presente e passato al tempo stesso, perché i pensieri è come se si bloccassero, un disco rotto con la puntina che salta, una moviola che ripete all’infinito la stessa scena. Questi pensieri fanno vivere all’infinito quei momenti là, forse l’avvio parte dai rumori, da uno sguardo impaurito verso l’esterno e poi proseguono rincorrendosi fino al momento in cui ci si accorge che a terra c’è un uomo morto. Quei pensieri ti perseguitano, sono osservatori esterni implacabili, sembrano dire: “Guarda che hai fatto!”, “Ora sei un assassino!”, “Lo hai ucciso!”. Perché la razionalità in questi momenti fatica ad emergere e, anche quando fa sentire la propria voce, appare misera cosa di fronte alla drammaticità degli eventi.

E se ripercorrendo con la mente ogni istante di quanto accaduto si può affermare che si sono sentiti i rumori, che ci si è spaventati, che si è temuto per la propria incolumità e quella dei propri cari, poi quello che rimane è un corpo disteso per terra esanime. Non importa il nome, la nazionalità, cosa facesse nella vita. Quel corpo lì è quello di un uomo. Quel corpo lì “era” quello di un uomo, perché ora è morto.

Le decisioni che prendiamo sono veloci, irrazionali, non ci danno modo di riflettere sulle conseguenze: chiamare la polizia o prendere un’arma? Se ce l’hai nel cassetto la pistola la prendi. La prendi e la punti. La prendi, la punti e spari. La prendi, la punti, spari e uccidi.

Questa sequenza oggi dura una vita, l’altra notte è stata la frazione di un secondo. Quello che rimane è la coscienza che ti accompagna e che definisce la tua vita in un prima ed in un dopo. Le vite spezzate di questa infelice storia sono due, quella di Franco e quella di Ion.

Franco oggi non si riconosce più, ha perso la sua identità di tranquillo tabaccaio di paese. Quel colpo ha deviato anche la sua anima: se prima Franco era un uomo tranquillo, uno che non avrebbe mai fatto del male a nessuno, pieno di quelle qualità che il figlio e la moglie mettono in luce ricordando a lui, ma anche a se stessi, chi è quell’uomo, quel marito, quel padre… oggi i riflettori che Franco e la sua famiglia hanno puntati contro gli dicono altro.

Dicono che ha deciso della vita di un altro essere umano, lo ha deciso suo malgrado, arbitrariamente, per paura… comunque compiendo un gesto che mai avrebbe completato se fosse stato pienamente consapevole delle conseguenze. Quando acquisti un’arma non pensi al fatto che può togliere la vita ad un’altra persona, ad un essere umano come te, pensi solo al fatto che possa proteggerti.

Ora chi protegge Franco da quello che ha fatto? La solidarietà di chi lo vuole “giustiziere della notte” siamo sicuri possa alleviare Franco dal peso della sua coscienza? Se potesse tornare indietro forse Franco non ripeterebbe di nuovo quel gesto, forse ammonirebbe tutti chiedendo disperatamente di riconsegnare le armi acquistate.

Forse il senso di questa storia, deve essere proprio questo, deve essere un monito, deve permettere alle coscienze di tutti di pensare che il peso di aver tolto la vita ad un’altra persona è un peso grande, che le tutele che possiamo e dobbiamo ottenere per la nostra sicurezza sono altre. Perché una settimana fa, su quel marciapiede di Pavone, di uomini ne sono morti due.