C’è violenza in carcere? Ogni tanto mi sento fare questa domanda che trovo, francamente, ingenua.

Un’ingenuità incolpevole, perché nasce dalla non conoscenza, ma anche da poca riflessione.

Sì, c’è tanta violenza, fisica e verbale. Violenza su se stessi, soprattutto.

Per protestare, per ottenere un trasferimento in un carcere più vicino ai famigliari, per cento altri motivi, perché non ci si sente ascoltati. Sciopero dell’alimentazione e del bere, ci si taglia il corpo, si inghiottono lame e pile e altro, si inscenano suicidi che a volte, purtroppo, riescono.

Se l’ambiente è deprivato di opportunità e prospettive, se si sta male, ma il futuro immaginabile è anche peggio o si comincia a pensare che la libertà sarà una breve pausa fra successive detenzioni, il disagio è altissimo.

Rispetto ai venti anni di insegnamento nei corsi professionali in carcere che svolsi dal 1985 al 2005, ho notato un pesantissimo aggravarsi del disagio psicologico, mentale.

Può essere dovuto al fatto che l’ambiente formativo della scuola fosse un posto con meno tensioni e rapporti più paritari e distesi, o anche alla situazione occupazionale esterna (la crisi di questi anni) che rende più difficile immaginare un ritorno alla libertà con possibilità lavorative.

Di fatto il clima è molto, molto più pesante.

Qualche bello spirito, dopo una breve visita nel nostro carcere a seguito di denunce di fatti di violenza, ha ritenuto di formulare una classifica delle carceri (che non aveva visitato) ponendo la nostra nelle ultime posizioni. Io ricevo da anni e quotidianamente la rassegna stampa di Ristretti Orizzonti, benemerita organizzazione che da venti anni, dal carcere di Padova, con la partecipazione di persone detenute, diffonde notizie, produce cultura e speranza.

Non c’è settimana in cui non vi sia riportato qualche episodio di violenza verso altri o verso se stessi, in tutte le carceri del Paese.

Non sto assolvendo il nostro carcere.

Sto sostenendo che il nostro sistema carcerario è una organizzazione che produce violenza, con rarissime isole, come appunto quelle di Padova o di Bollate, sempre citate e che dimostrano che sarebbe possibile. Sto accusando un sistema che rischia di distruggere persone.

Persone detenute e persone che vi lavorano.

Perché la violenza è veleno e fa male a tutti.

Certo la violenza, da qualsiasi parte giunga e su chiunque si eserciti, va sanzionata.

E quella esercitata dalle persone detenute viene sanzionata quasi sempre, non sempre quella di altri. Però sarebbe saggio interrogarsi sulle cause, sulle origini.

Una convivenza così “ravvicinata e costretta” fra persone detenute e persone che lavorano, non può che determinare una parziale comunanza di condizioni.

Vivere con persone che pongono domande a cui non c’è risposta, che esprimono malesseri, che diventano rabbia, reclamo, protesta non può che avere, alla lunga, due esiti: il “burnout” o una reazione violenta.

Quasi sempre dopo una attività che vede la partecipazione delle persone detenute e rompe il tempo vuoto delle giornate tutte ugualmente inutili, l’agente di polizia quasi ti implora: “fatele più spesso queste iniziative, che siamo tutti più sereni”.

E quante volte in questi anni vari agenti mi hanno segnalato situazioni di persone così abbandonate e sofferenti da non riuscire nemmeno a chiedere aiuto: “non è che potrebbe parlargli?”.

Certo gli organici sono insufficienti e non tutte le posizioni sono coperte, ma occorrerebbe chiedersi quanto sia la qualità del lavoro a rendere pericoloso e nocivo questa attività.

Penso che la ricerca della sicurezza attraverso il controllo ossessivo non avrà mai organici sufficienti e la frustrazione non diminuirà, con rischi di vittimismo contagioso.

Credo che solo una qualità profondamente diversa del tempo, della vita trascorsa lavorando e restando detenuti possa ridurre tensioni, frustrazioni, vittimismi e violenze.

E sarebbe vantaggioso per tutti.

Armando Michelizza Presidente Associazione Volontari Penitenziari “Tino Beiletti”

Questa analisi così puntuale sui motivi di tanta violenza, analisi fatta da chi ha una lunga storia di esperienza nella Casa circondariale di Ivrea come insegnante, garante dei diritti delle persone private della libertà per 5 anni ed ora presidente della nostra associazione di volontari in questo periodo così difficile, pone tanti interrogativi…

Come si potrà uscirne? Ci saranno la volontà e l’impegno di tutte le forze che gravitano intorno alla realtà detentiva? Si riuscirà ad arrivare a un cambio radicale di mentalità, che sta alla base di tutto? A volte i miracoli succedono… vogliamo continuare a crederci!

m.g.