(foto dal sito Vatican News)

Le scene di evacuazione degli stranieri da Khartoum, capitale del Sudan stretta nella morsa di una guerra tra due generali – uno capo di Stato e l’altro capo di un nutrito gruppo ribelle, che si contendono potere e ricchezze – mi hanno fatto rivivere situazioni critiche simili.

Le evacuazioni sono tutte uguali e al contempo diverse l’una dall’altra. Hanno in comune l’alto livello di pericolosità per chi è impegnato a salvare e chi è costretto a scappare. Gli uni e gli altri agiscono al limite: o adesso o chissà se ancora e quando. Non è una decisione facile per tante ragioni: quelle del servizio umanitario; di lavoro per chi possiede beni che possono valere una vita di sacrifici e personale locale con il quale è stato stretto un rapporto talvolta non solo professionale.

Le cronache da Karthoum raccontano le evacuazioni italiane a partire da un punto di raccolta, l’ambasciata italiana, ma può essere una scuola internazionale, la sede di un organismo Onu, il compound di una grande impresa… insomma, un luogo dove si può stare in tanti, relativamente al riparo e al sicuro perché riconosciuto e rispettato dai belligeranti, dove anche un elicottero di emergenza può atterrare.

Chi vive in Paesi a rischio di crisi conosce queste opzioni, e si adegua alle disposizioni di chi sovrintende alla sicurezza e offre un riparo per chi resta e una via di fuga per chi vuole andarsene, soprattutto quando ci sono dei figli in giovane età. Se l’evacuazione in quanto tale parte da un punto comune di raccolta, anche relativamente facile da raccontare per i cronisti e gli organizzatori, la fuga inizia ben prima, ed è assai più pericolosa che l’evacuazione in sé. Sono quei chilometri, sempre troppi, che separano casa tua dal punto di raccolta e che, salvo casi diversi, devi percorrere in autonomia; sono i chilometri dove trovi le barriere di pneumatici in fiamme presidiati da militari o ribelli che non sai mai come la pensano quando ti vedono arrivare.

Per questo, prima di uscire di casa, hai cercato di sapere quali sono le strade libere, quelle sbarrate e quelle che proprio devi evitare. Speri di aver capito bene le istruzioni e di conoscere a sufficienza la toponomastica della città. Sono i chilometri dove, azzerata la circolazione di qualunque altro veicolo, diventi il bersaglio preferito anche di chi in quella situazione, con un’arma in mano, decide di sbarcare il lunario sapendo che tanto la farà franca.

C’è chi opta di non raggiungere il punto di raccolta perché sa di rischiare troppo: resterà asserragliato in casa, razionando cibo, acqua e altri generi, e soventissimo senza luce. Non è garantito che non gli succeda nulla, ma ci spera. E c’è chi resta perché vuole convintamente restare, per continuare a fare il suo mestiere, controllare i suoi beni, portare soccorso alla popolazione, essere operativo appena si aprirà uno spiraglio di tregua.

Quante ragioni per lasciare e quante per rimanere! Ma poco o nulla si dice nelle cronache di questi giorni di guerra a Khartoum, di coloro che restano. Oggi prevale la cronaca delle evacuazioni coordinate dalle élite militari dei rispettivi Paesi. Forse domani ci racconteranno di coloro che sono rimasti, perché e che cosa fanno. Il 29 febbraio 2004, era un anno bisestile, il contestato presidente haitiano Jean Bertrand Aristide, sotto la spinta di americani e francesi, sale su un aereo a quel momento con destinazione non resa pubblica.

Il Paese piomba nel caos più totale che obbliga le Nazioni Unite a ordinare l’evacuazione del suo personale “non essenziale”. L’ambasciata spagnola si fa carico, invece, di evacuare verso la vicina Repubblica Dominicana gli europei che decidono di lasciare il Paese. Così sarà non per me, ma per la mia famiglia, con figlio di 5 anni. Le due evacuazioni avverranno lo stesso giorno: stesso punto di ritrovo il compound del Programma Alimentare Mondiale, dove una decina di minibus attendono l’arrivo, obbligatoriamente puntuale, dei partenti, che da soli hanno dovuto organizzarsi per percorrere i chilometri da casa fin lì. Siamo fortunati nel conoscere bene la toponomastica ed evitare tutto ciò che vi è da evitare, per arrivare puntuali in buone condizioni fisiche; il lato psicologico è invece notevolmente a soqquadro.

I marines americani garantiranno la sicurezza del convoglio e delle persone; mezzi militari davanti, in mezzo e in chiusura di convoglio e marines su ogni minibus; mezzi Onu a supporto. Agli autisti sono state date precise istruzioni; il convoglio è “chiuso”, non devono lasciare altri automezzi che si frappongano tra loro e lo spezzi. Una situazione creata sul momento mi permette di salire sul minibus e accompagnare la famiglia all’aeroporto, anche se io non partirò, ma con la garanzia di essere riportato indietro dal convoglio delle auto Onu a quel punto senza più i marines americani di scorta, dopo la partenza del loro personale. I minibus viaggiano veloci nelle strade deserte, la visibilità è ridotta dal fumo dei pneumatici in fiamme, i marines, senza complimenti, sanno come far togliere le numerose barricate dei ribelli; nei punti dove c’è assembramento di ribelli la velocità aumenta per evitare attacchi, aumenta pure la tensione, i rumori e i suoni si mischiano, stai basso con la testa e con il corpo; meno vedono gente a bordo, meglio è per tutti.

Nella stessa situazione, in un altro Paese, quel viaggio verso l’aeroporto mi fu chiesto di farlo in maniera autonoma; fu lì che, saggiamente, rifiutai di non muovermi da casa. Sulla pista dell’aeroporto della capitale haitiana l’aereo degli “europei” arrivò (e partì) molto prima di quello del personale Onu. Mano nella mano, mamma e figlio salirono a bordo. All’arrivo un’auto dell’ambasciata italiana li recuperò e portò tranquilli in albergo. Fu la prima, ma non l’ultima evacuazione.