(Cristina Terribili)

La guerra nell’ex Jugoslavia era conclusa da una decina d’anni circa quando mi fermai casualmente a parlare con un militare italiano stanziato a Sarajevo, sulla situazione nei Balcani. Mi disse di aver la sensazione che quel tempo fosse passato senza reali cambiamenti: “Se dovessimo andare via ricomincerebbero tutto daccapo. In questi anni mi è nato un figlio che ho visto pochissimo, ho fatto delle rinunce eppure ho la sensazione che non sia servito a nulla”.

A tanti anni di distanza le parole che oggi arrivano dall’Afghanistan sono state più o meno le stesse. I soldati morti, l’impegno economico e militare profuso, la spinta verso la tutela dei diritti consentendo alle bambine, alle ragazze, alle donne, di avere una voce nella società sembrano essere stati vani e tutti coloro che si sono impegnati per l’Afghanistan sentono di aver perso. Sentono che vent’anni di impegno non sono serviti a nulla.

Ma il tempo, lo sappiamo, è relativo. Il tempo ha un modo tutto suo di scorrere nella vita e nella mente di ognuno di noi. Vent’anni possono essere tanti e pochi allo stesso tempo, possono essere un granello di sabbia in un mastodontico meccanismo tanto quanto un tempo utile per una rivoluzione.

Probabilmente, se associati ad un cambiamento di valori, di tradizioni, di modelli a cui fare riferimento, vent’anni sono un tempo veramente molto relativo. Non stiamo forse ancora faticando, qui da noi, per far sì che i diritti della donna siano realmente acquisiti? Quanti anni ci sono voluti affinché nei nostri ordinamenti cadessero quei principi relativi ai “delitti d’onore” e ai matrimoni “riparatori”? Quante donne, ancora, nel nostro Paese, percepiscono stipendi inferiori ai colleghi uomini? Quanti giudici, ancora, si soffermano sugli abiti indossati dalla vittima di violenza? In quanti Paesi le differenze tra uomini e donne sono ancora un nodo da sciogliere? Quanto ancora fatichiamo a considerarci senza distinzione in merito al colore della pelle o alla provenienza geografica?

Se da una parte c’è unanimità nel considerare la crisi umanitaria in Afghanistan dall’altra c’è la preoccupazione, e persino il rifiuto, ad accettare i profughi. Quelli senza invito, per intenderci; quelli che non hanno avuto la fortuna di avere avuto un posto di lavoro nelle diplomazie, di avere avuto un amico o una persona che li ha garantiti, che li ha fatti salire sull’aereo.

Le bambine afghane che in questi venti anni sono andate a scuola sono state tante ed hanno imparato molto; forse servivano molti più anni per mandare a scuola tanti altri bambini e permettere loro di arrivare ad un cambiamento. I cambiamenti si consolidano se fatti insieme, se si cammina fianco a fianco, se ci si dà il tempo di cadere e rialzarsi.

Che valore dare al dialogo in una situazione come quella dell’Afghanistan? Dialogare non significa legittimare ma mettersi in comunicazione profonda con l’altro, provare a comprendere i pensieri, gli interessi, le ambizioni, gli obiettivi di chi ci è di fronte e tentare tutte le mediazioni possibili per garantire istruzione, cure mediche e condizioni di vita sicure per tutti.

Solo dialogando con chi si nasconde dietro la guerra delle civiltà speriamo che altre donne, bambini, giovani ed anziani, riescano a proseguire il cammino verso un cambiamento possibile e far sì che il tempo non sia passato inutilmente.