(Mario Berardi)

Tira una brutta aria sul voto referendario e amministrativo del 12 giugno: secondo gli ultimi sondaggi la maggioranza degli elettori diserterà le urne, com’è già avvenuto nelle comunali dello scorso anno, a cominciare da Torino.

I cinque quesiti sulla Giustizia, promossi dai Radicali e dalla Lega (abrogazione Legge Severino, Riforma CSM, Valutazione dei magistrati, Separazione delle carriere, Misure cautelari), non hanno incontrato un grande interesse per la loro dimensione tecnica, per la contemporanea azione di riforma avviata dalla Ministra Cartabia e per il sostanziale disinteresse delle forze politiche che non hanno avviato il referendum.

Sul voto amministrativo l’inchiesta demoscopica del “Corriere della Sera” ha accertato un forte assenteismo nelle due principali città chiamate alle urne: a Genova, che punta a rieleggere il sindaco Bucci e a Palermo, dove c’è testa a testa tra centro-destra e centro-sinistra sul dopo Orlando, primo cittadino per quattro legislature.
La disaffezione verso i Municipi ha molte cause; certamente pesa la globalizzazione dell’economia.

A Torino, ad esempio, dopo la fusione Fiat-Citroen in Stellantis, la Famiglia Agnelli ha ceduto la guida del colosso automobilistico ai francesi e al nuovo Ceo, il portoghese Tavares; è quindi più difficile per il sindaco di Torino intervenire sugli asset industriali e finanziari, anche perché il Governo italiano, diversamente da quello parigino, non è presente nel capitale azionario della società. Il dibattito sul futuro dell’auto nella Capitale subalpina diviene quindi molto generico, diversamente dal secolo scorso quando, ogni mese, a Palazzo Civico si discuteva della Fiat degli Agnelli. Analogamente i nuovi poteri della Regione in materia socio-sanitaria, esplosi nell’era del Covid, hanno accentuato il ruolo politico e amministrativo dei Governatori, con un peso marginale dei primi cittadini.

Ma la diserzione delle urne ha soprattutto un rilievo negativo sul compito dei partiti, che non hanno recuperato pienamente la caduta determinata da Tangentopoli e dalla fine della prima Repubblica. Alla crisi delle ideologie è subentrata una nuova attenzione per i leader, con un “peso” delle persone non accompagnato da un adeguato spessore politico e culturale. Emblematico il caso di Matteo Renzi che in pochi anni ha attraversato tutto lo scenario politico: Popolare con la Margherita, Socialista con il Pd, Liberale oggi dopo la scissione di “Italia viva”. Le stesse vicende, confuse, di questi giorni trasudano personalismi: il segretario della Lega Salvini ha avviato una trattativa con Mosca all’insaputa del Governo e del suo stesso partito (com’è emerso dalle dichiarazioni critiche del ministro Giorgetti); come se il Carroccio fosse una “proprietà personale”; nei Pentastellati siamo allo scontro finale tra l’ex premier Conte e il ministro degli Esteri Di Maio: al leader politico pentastellato si attribuisce il disegno di “sostegno esterno” al Governo Draghi sia per recuperare voti a sinistra sia per disarcionare lo stesso Di Maio; nei Centristi continua la lotta tra quattro piccoli “poli” (Calenda, Lupi, Toti, Renzi); nel centro-sinistra i “buoni” rapporti personali tra Conte e Letta nascondono le grandi diversità in politica estera, con un M5S più vicino a Salvini mentre la scelta occidentale del Pd lo av-vicina alla Meloni (da cui sono diversissimi su mol-ti temi, dall’immigrazione alle questioni etiche).

Questa situazione confusa, che già preoccupa le agenzie internazionali di rating in vista delle politiche della prossima primavera, non stimola certamente la partecipazione degli elettori, rendendo più deboli le istituzioni democratiche, con il rischio di scelte “giorno per giorno”.

I partiti, che la Costituzione ritiene determinanti per la vita democratica del Paese, hanno l’esigenza di partire da scelte di valori e di programmi, prima delle indicazioni personali, evitando la degenerazione del leaderismo a tutti i livelli, locale, regionale, nazionale. La scelta del sistema maggioritario non ha favorito la partecipazione dei cittadini; anzi. Anche alla politica gioverebbe un cammino “sinodale” dal basso, con maggior spazio al dibattito sui problemi e sulle scelte, senza limitarsi a un “sì o no” su proposte dall’alto.