Gli italiani andranno alle urne per il referendum istituzionale entro due-tre anni perché il disegno di legge Meloni sul “premierato elettivo” non ha alle Camere la maggioranza qualificata, come ha riconosciuto il ministro Calderoli. Avremo una campagna elettorale permanente su un tema non prioritario, essendo l’equilibrio delle istituzioni garantito con saggezza dall’Inquilino del Quirinale: l’iniziativa del Governo “offusca” una personalità come Sergio Mattarella che gode di un’ampia maggioranza di consensi nell’opinione pubblica, come confermano tutti i sondaggi.

È vero che il ddl Meloni entrerebbe in vigore con le elezioni politiche del 2027, ma l’affondo contro il ruolo del Colle è già politicamente in atto, in quanto la proposta di legge trasferisce a Palazzo Chigi i poteri essenziali di nomina del Capo del Governo, dei ministri e, soprattutto, la possibilità di sciogliere le Camere. Il risultato sarebbe un Presidente della Repubblica ridotto a un semplice ruolo di rappresentanza. È l’opposta filosofia politica che contrappone il Governo ai Presidenti recenti, in particolare (dopo Tangentopoli) Ciampi, Napolitano, Mattarella, ovvero un laico autorevole, un comunista “migliorista”, un cattolico democratico: tutti impegnati in una linea di “unità nazionale”, di ampia solidarietà, di pieno rispetto tra le forze politiche, pur nella diversità dei ruoli.

Il ddl Meloni segue la linea americana dello scontro frontale Trump-Biden: al premier eletto (dal 25% dell’elettorato, stando ai dati delle ultime elezioni politiche) andrebbe il 55% dei seggi alle Camere, chiamate ad una funzione puramente esecutiva, con la minaccia continua dello scioglimento anticipato (su questo punto c’è un contrasto nel Governo, con la Meloni che propone il voto immediato dopo la crisi, mentre Salvini opta per un secondo mandato all’interno della maggioranza). Un governo di minoranza, all’interno di uno scontro permanente destra-sinistra, è la soluzione giusta per il Paese? Chi lo sostiene attacca i governi “tecnici”: Ciampi nel ’93 (presidente Scalfaro), Monti nel 2011 (Napolitano), Draghi nel 2021 (Mattarella). Davvero, sono gli Esecutivi peggiori nella storia repubblicana, oppure hanno affrontato vera emergenza, dopo Tangentopoli, la crisi finanziaria mondiale, il post-pandemia?

Le opposizioni (tranne Renzi) sono unanimi nel “no” al ddl Meloni sostenendo l’intangibilità della nostra Carta costituzionale, una delle migliori al mondo.

Ma, come ha osservato il nuovo direttore de “La Stampa” Andrea Malaguti, c’è incertezza nella complessiva linea istituzionale del Pd della Schlein. Nei mesi scorsi la segretaria, con il capogruppo al Senato Boccia, aveva negato ulteriori scelte di governi tecnici, nella tesi dello scontro frontale sinistra-destra. Potremmo dire: “coincidentia oppositorum”, ovvero Schlein-Meloni destini incrociati.

Ma la storia del Pd è diversa: lo testimoniano proprio Napolitano e Mattarella, il precursore della “conversione” socialdemocratica del Pci e l’erede del popolarismo di ispirazione cristiana, da Sturzo a De Gasperi, da Fanfani a Moro e Zaccagnini. Se il Pd abbandona queste due radici, quali rimangono? E con quali armi contrastare il disegno di contro-riforma costituzionale della Meloni?

Nel frattempo, prima del referendum del 2025-26, il Paese attende che i problemi urgenti non vengano accantonati, a cominciare dalla chiarezza in politica estera. Ha fatto scalpore la “falsa” intervista della Meloni a un presunto leader africano, in realtà due comici russi al servizio di Putin; a parte l’infortunio dello staff di Palazzo Chigi (il consigliere diplomatico Talò si è dimesso), la premier ha ammesso che “c’è stanchezza sull’Ucraina”, riservandosi nuove proposte. In un conflitto che dura quasi da due anni, forse l’ora delle novità è matura; allo stesso modo sarebbe necessario richiamare Bruxelles a una chiara posizione di pace nella nuova guerra in Medio Oriente.

Sul piano interno permane una situazione finanziaria dello Stato in bilico, perché Bruxelles, per il 2024, non consente agevolazioni finanziarie con un nuovo patto di stabilità: è una ritorsione politica al confermato rifiuto italiano di sbloccare il Mes, unico Paese contrario su 27.

La Meloni non è in grado di superare il “no” assoluto di Salvini, almeno sino alle Europee di giugno; allo stesso modo ha dovuto accettare nel bilancio 2024 i fondi per il Ponte sullo Stretto (sempre Salvini, vero “uomo forte” del governo), mentre dall’altro lato era costretta a stringere i cordoni della borsa per questioni sociali urgenti, come la sanità.

Ancora una volta le questioni politiche identitarie sembrano prevalere sui temi di largo interesse pubblico.