Nuove povertà si assommano a quelle vecchie

(Cristina Terribili)

Che la pandemia avesse spaccato il mondo fu evidente fin da subito. Il mondo non si era diviso solo tra sani e malati, tra chi aveva avuto l’accesso al tampone e chi no, tra chi viveva nelle zone rosse e chi ne era distante. Il mondo si era separato secondo tante piccole sfumature: prima solo note di colore, ora evidenti solchi socio-economici.

La divisione c’è stata tra chi aveva una connessione stabile e chi no, tra chi aveva a disposizione un pc per ogni componente del nucleo familiare e chi no; ed ancora, tra chi aveva un balcone e chi no, tra chi aveva un appartamento grande e chi no, tra chi poteva andare a lavorare e chi no, tra chi poteva riaprire un’attività e chi no, tra chi poteva permettersi le mascherine FPP3 e chi no, tra chi riusciva ad occupare il tempo e chi no, tra chi poteva contare su affetti stabili e piacevoli e chi no, tra chi ha ricevuto degli aiuti economici e chi no.

C’è stato immediatamente chi si è barcamenato tra qualche sì e qualche no, chi si è sentito privilegiato da subito, chi ha capito di esserlo da tempo e chi ha avuto chiaro il pensiero che la vita sarebbe inesorabilmente cambiata e che ciò che poteva tenere a galla, prima del Covid, non ci sarebbe più stato.

C’è chi si è reso conto, solo dopo qualche mese, che essere messo in regola per due ore lavorative su otto, gli avrebbe consentito l’accesso alla cassa integrazione per poche decine di euro al mese.

C’è stato chi si è reso conto che quei piccoli o grandi espedienti che usava per arrivare a fine mese non erano più accessibili e che malgrado ogni stima e probabilità, ogni giorno che passava non avrebbe fatto altro che aumentare un debito che si sarebbe potuto recuperare solo dopo molti anni, e solo se la pandemia finiva presto e solo se a quei danni non se ne fossero aggiunti altri.

È stato come se la favola della cicala e della formica si sia resa realtà. La spaccatura tra chi ha o aveva accumulato e chi ha o aveva vissuto alla giornata per troppo tempo fosse palesata. La cicala è destinata a soccombere, la formica, tronfia dei suoi averi, è disponibile a fare la morale ma non a condividere.

Se molti pensavano che gli italiani si fossero adeguati alla provvisorietà, a quella economia e società liquide con cui la filosofia politica e sociale ha definito questi anni, si è scontrato con la realtà che vede il nostro Paese composto da piccoli risparmiatori che fanno fatica a mantenere alcuni capitali protetti e che intaccano i risparmi utili soprattutto a sentirsi protetti.

La povertà è stata dunque amplificata dal “sentirsi povero”, dal sentire che dentro di sé e intorno a sé mancavano quei punti d’appoggio, quella stabilità, quella sicurezza che faceva sentire protetti.
Quando questo sentire si insinua nella mente, vengono a mancare la fiducia nelle proprie risorse, la speranza nella propria capacità di progettare, di adattarsi quel che serve per tornare ad essere in forma in altri periodi. Viene a mancare quella resilienza, che permette di pensare, prima che di trovare, oasi di possibilità.

Sebbene sia indiscutibilmente vero che tante attività hanno chiuso, che molte persone hanno perso il lavoro, che c’è chi ostenta la propria ricchezza a fronte di chi sta facendo tante rinunce e che è pervaso da una tensione costante, c’è chi cerca e usa tutto ciò che il contesto offre per poter superare, vivo, questo periodo.

La ricchezza e la povertà sono due concetti opinabili e definirsi ricchi o poveri solo secondo i dettami economici è limitato e limitante.

Ognuno di noi vale molto più del capitale che ha in banca e questo deve sempre fare la differenza. Se si crede in sé e nella propria capacità di apprendere, di fare, di pensare, non si sarà mai poveri.

Il resto, sono solo numeri