(Fabrizio Dassano)

Prossimo alla partenza per il massiccio del Monte Hermada sulla transfrontaliera italo-slovena per uno studio sulle trincee asburgiche della Grande Guerra, mi accorgo del problema del Penny-cane! Occorre il mitico “passaporto” per animali da compagnia (“Pet passport”) unito all’altrettanto mitico “Libretto Sanitario Internazionale di vaccinazione dei cani”!

La giornata si preannuncia densa di avvenimenti veterinario-burocratici: precedentemente avevo portato il Penny-cane a fare il vaccino antirabbia e con l’attestazione sarei andato al servizio veterinario competente per i documenti d’espatrio del quadrupede. Però l’ufficio mi chiedeva un ulteriore certificato, tipo “B12” (o, forse solo “modello 12”? Probabilmente mi confondevo con la vitamina…).

Ottenuto quest’ulteriore foglio, scopro che l’appuntamento col competente ufficio è concomitante con un impegno di lavoro. Accidenti! Telefono immediatamente per spiegare il problema e ricevo la proposta di andare subito! Accetto, perché nella vita la rapidità di decisione è fondamentale: come a Balaclava! Esco dal lavoro, prendo l’auto, vado a casa anche se la corsa è rallentata da un Apecar che mi si piazza davanti ai 40 km/h. Scendo, prendo il cane sperando che abbia già fatto i suoi bisogni, saliamo in macchina e partiamo con la radio a palla e i finestrini abbassati. Metto il “navigatore” per sapere dove andare e in effetti trovo la destinazione. Non c’è nessun parcheggio libero. Giro ovunque in quel quartiere postmoderno finché azzecco un posto.

“Scendo” il cane e gli metto il guinzaglio. Sono titubante: davanti a me c’è l’ingresso, ma posso entrare col cane? Nonostante sia proprio lì che devo portarlo, mi viene “la tempesta del dubbio” di mazziniana memoria.

Entro e fortunatamente c’è qualcuno che i miei dubbi li scioglie positivamente. Pago il ticket e mi dice di salire al piano e di andare all’ultimo ufficio in fondo al corridoio. Salgo col cane e prego che non gli scappi. Attraverso imbarazzatissimo diverse sale d’attesa con gente che guarda il cane e poi me, compresa la pediatria con i giochini per terra e gli sguardi severi delle mamme. Affretto il passo. Arrivo, busso e apro la porta. Vengo fatto accomodare nello studio.

Improvvisamente il veterinario estrae un ordigno di plastica, bianco, e si dirige verso di noi impugnandolo nella mano destra. Sembra un termometro a pistola. Istintivamente metto la mano al borsello pronto ad afferrare il foglio e dico: “Ho il green pass…”. “Non è per lei, è per il cane”, mi risponde. “Accidenti, ora prendono la temperatura anche ai cani!”, penso tra me. Invece non è un termometro, ma un apparecchio che legge il microchip del cane. E qui capisco la differenza tra umano e animale (almeno per ora).

Alle pareti ci sono foto di mucche e pecore, cartelline con strane etichette (tipo “cani non finiti”) e poi lo studio. Consegno i documenti al veterinario che va alla scrivania e compila. Mi gira la schiena e mi parla così, sempre dandomi le spalle. Si vede che si usa così in veterinaria. Il colloquio è abbastanza lungo, confesso che per educazione ho pensato che forse anche io avrei dovuto girare la schiena prima di rispondere. Ma poi ho pensato che – schiena contro schiena – non avrebbe potuto vedermi lo stesso.

Mi ha compilato i due libretti e me li ha portati, finalmente girandosi. Il Penny-cane, che è intelligente e aveva capito tutto, stava invece tranquillamente girato di schiena da almeno dieci minuti. Abbiamo ripreso il veicolo e siamo tornati a casa, provati dall’inedita avventura ma intimamente felici: tra pochi giorni attraverseremo il confine e prenderemo il bastione dell’Hermada!