La famosa parabola del ricco epulone appartiene ormai al “milieu” cristiano in cui siamo cresciuti, e che tutti conosciamo per cultura passiva. È chiaro che essa va collocata nel tema tipicamente lucano di rifiuto delle ricchezze e di attenzione per i poveri. Abbiamo già parlato molto del lato umanitario del Vangelo di Luca, che ci invita a guardare oltre al materiale per vedere l’umano, tuttavia cosa può dirci la parabola del ricco epulone di nuovo? Io credo che oggigiorno abbiamo bisogno di ascoltare un altro monito di questa parabola, che non è il suo tema né il messaggio immediato, ma che è tuttavia di estrema importanza: il monito della dannazione!

Non è per fare terrorismo: il monito dell’Inferno, con le minacce connesse, è stato usato e abusato da predicatori, non solo cattolici, per piegare il popolo all’obbedienza in atteggiamenti non molto cristiani.

Allo stesso modo, la promessa della liberazione da esso è stata usata e abusata da predicatori, anche protestanti, per ingraziarsi le masse.

In realtà, per come possiamo comprenderlo, questo mistero dell’Inferno va inteso come una drammatica realtà conseguente alla separazione Dio-creatura. Non pensate all’Inferno come a un luogo di torture, ma piuttosto come un luogo, ben più angoscioso, di eterna solitudine e di eterna insoddisfazione. Questa immaginazione, sebbene imperfetta per definire tale luogo, vi aiuterà a comprendere come queste terribile realtà non sia in alcun modo una condanna da parte di Dio (se non passiva), ma il risultato di una scelta dell’uomo.

Anche la parabola, del resto, ci aiuta a comprenderlo in questo modo; l’Inferno è visto chiaramente come una conseguenza delle azioni del ricco.

Tuttavia, questo discolpare Dio non deve portarci a disconoscere la realtà e la gravità di questa realtà. Se la speranza che nessuno sarà dannato è legittima, la paura di non esserlo è doverosa: dobbiamo adoperarci per non andarci, come dice Sant’Agostino: “Dio non ci salverà senza di noi”.

Questo non deve tramutarsi in paura-angoscia, né tramutarsi nel grave peccato della “disperazione della salvezza”, il pensiero cioè che non riusciremo a salvarci. Piuttosto, questa paura deve tramutarsi in un sano e sereno proposito di evitare il più possibile azioni contrarie alla volontà di Dio, pentendoci in fretta dei nostri peccati, rimanendo vicini ai sacramenti (soprattutto Penitenza e Eucarestia) che sono la via privilegiata della Salvezza (come guidare con l’auto assicurata, rispettando i limiti di velocità).

un giovane della diocesi

(Lc 16,19-31)

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi,
non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».