Il passo di oggi ci ricorda almeno due verità fondamentali, e ne insinua piuttosto chiaramente almeno una terza. La prima verità è l’universalità dell’annuncio evangelico. Ho detto molte volte, rischiando di essere frainteso o non capito, che il dolore è ciò che più di tutto ci rende umani, la capacità di soffrire.

Le nostre sofferenze non sono una cosa da mettere a margine, a cui si deve cercare di non pensare; esse devono invece essere il centro del nostro ringraziamento a Dio: sono esse a renderci umani, a renderci fratelli di tutti gli uomini. La sofferenza, se illuminata dalla Grazia, è lo scalpello che scava in noi un cuore di carne, gradito a Dio. È la sofferenza a rendere questi lebbrosi tutti uguali: non conta più che siano giudei o samaritani, non conta per Gesù, essi sono soltanto uomini che soffrono, che sono caduti nella più grande sofferenza che poteva capitare agli uomini di quel tempo, la lebbra con la sua conseguente emarginazione.

Capire il ruolo centrale della sofferenza nell’economia della Salvezza è certamente difficile, e apre la porta a infiniti fraintendimenti ed estremizzazioni: dobbiamo essere cauti. Questo non vuol dire che dobbiamo diventare dei masochisti innamorati del nostro dolore, ma dobbiamo leggere il dolore come uno strumento, permesso da Dio, e non come una sciagura.

Nessuna riflessione giustificherà mai un dolore inflitto, incluso a noi stessi, come se la sofferenza potesse essere uno strumento che noi possiamo usare. Ben altra cosa è riconoscere il ruolo che la nostra sofferenza ha nel condurci a Dio, che rassegnarci a una vita infelice o, peggio, a cercare da soli il dolore.

Non dobbiamo dimenticarci che, se illuminata dalla Grazia, la sofferenza può farci maturare, essa può però anche distruggerci, logorarci e imbruttirci; come magistralmente dimostra Mary Shelley in “Frankenstein”, dove il mostro diviene tale per assenza d’amore.

La seconda verità, collegata alla prima, è la forza della Fede: la disperazione di questi uomini apre il loro cuore al più commosso e sentito grido d’aiuto, alla fede che non è solo “credere” ma anche “affidarsi”. La verità insinuata, infine, è poi il superamento di ogni pregiudizio. Proprio in ragione di questa comunanza umana nel dolore, proprio in ragione della forza della fede come grido di un’umanità sofferente, non ha più senso alcun pregiudizio, alcun giudizio umano.

Un samaritano può essere meglio di un giudeo in quanto a fede, e la sua fede lo salverà comunque, anche se samaritano.

un giovane della diocesi

 

(Lc 17,11-19) Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».