(Michele Curnis)

Tra i canti VI e VII del Purgatorio Dante utilizza il verbo piangere in due circostanze: prima per la città di Roma, antica sede dell’impero ma ora abbandonata dai titolari germanici di quell’istituzione, poi per il Monferrato e il Canavese, che soffrono le conseguenze delle guerre di Guglielmo VII.

Il pianto, dunque, è metafora specifica per la deplorazione di un vuoto di potere, intendendosi con quest’ultimo quello della massima autorità politica o dei suoi fiduciari. Al tempo stesso, il pianto è provocato anche da altro tema che appare più volte: la degenerazione delle virtù politiche di padre in figlio, che Dante argomenta per mezzo di numerosi esempi (sintetizzati nel finale del canto VII: «Rade volte risurge per li rami / l’umana probitate; e questo vole / quei che la dà, perché da lui si chiami», vv. 121-123).

Nel cuore della digressione politica del canto VI, per l’appunto, Dante rivolge un’apostrofe ad Alberto I d’Asburgo (1255-1308), invitandolo a discendere in Italia per vedere personalmente come «Roma piagne / vedova e sola» (vv. 112-113), in quanto abbandonata dal suo imperatore. Alberto è figlio di Rodolfo, la cui anima apparirà nel canto successivo per aprire la serie dei principi negligenti (ma nel complesso virtuosi e devoti).

Secondo la trasposizione cronologica del viaggio della Commedia alla settimana pasquale dell’anno 1300, Dante interloquisce retoricamente con Alberto come se fosse ancora in vita, mettendo in guardia il suo successore dal comportarsi similmente a chi aveva trascurato «’l giardin de lo ’mperio» (v. 105, allusione all’Italia); in realtà, è certo che Dante scrisse i canti VI e VII del Purgatorio dopo il 1308, quando ormai regnava Enrico VII di Lussemburgo (1275-1313), in cui il poeta riponeva altissima fiducia e speranza.

I provvedimenti del nuovo imperatore in Italia settentrionale, che Dante certamente conosceva, costituiscono motivo di riflessione sulle condizioni politiche di molti territori; tra di essi rientra anche il Canavese. Con un diploma del 24 novembre 1310 (conservato presso l’Archivio di Stato di Torino), Enrico VII nomina principe il conte Amedeo V di Savoia, erigendo in principato il contado che comprendeva Ivrea e Canavese; nel febbraio dell’anno successivo, poi, nomina i vicari imperiali della Lombardia (denominazione generica che praticamente include tutta l’Italia nord-occidentale).

In Monarchia III vi 5 si legge una definizione giuridicamente impeccabile del vicario, al quale «sono affidati poteri da esercitare secondo la legge o secondo il suo arbitrio, e pertanto all’interno di tali poteri può intervenire, secondo la legge o secondo il suo arbitrio, su cose di cui il signore è completamente all’oscuro».

La presenza attiva dei vicari speciali sul territorio costituiva dunque per Dante il presupposto della piena restaurazione dell’ordine imperiale e della volontà dell’imperatore: nuova speranza di un secolo migliore, dopo il fallimento dell’esperienza comunale.

Ai fini della nostra indagine, è significativo che nelle nomine dei vicari di Enrico VII, accanto alle principali città italiane, compaia anche l’espressione geografica «In Yvania et Canavosa dominum Johannem de Sancto Laurencio». La fonte, conservata presso l’Archivio di Stato di Venezia, è un documento con moltissimi errori di trascrizione (per esempio, Amedeo di Savoia, vicario generale di tutta la Lombardia, è chiamato «Aymerus comes Sabau-diae»): dietro la grafia «Yvania» si nasconde il toponimo medioevale Yvo-reia, ossia Ivrea. In più, quello del Canavese appare come nome di genere femminile, probabile latinizzazione di un originale Canavise o Canavese, secondo la stessa grafia adottata da Dante.

Il nominato per Ivrea e Canavese, Johannes de Sancto Laurentio, va probabilmente identificato con un suddito sabaudo, Jean de Luysiel, castellano di Saint-Laurent de Pons, in Alta Savoia. Tra gli altri ventiquattro vicari speciali compare poi, nominato per Mantova, Lapo degli Uberti (ca. 1247-1312), figlio del magnanimo ma sanguinario condottiero ghibellino Farinata degli Uberti, che Dante incontra tra gli epicurei del canto X dell’Inferno.

Anche un nobile canavesano fa parte del novero, perché il vicario di Bergamo – «Petrus de Aymorino», secondo la lista degli ambasciatori veneziani – va identificato con il conte Pietro di Masino, alleato di Amedeo V.

Il 6 gennaio 1311, giorno dell’Epifania, Dante si trovava a Milano per rendere omaggio personale a Enrico VII e assistere alla sua incoronazione come re d’Italia. Dal momento che il documento veneziano fu stilato nel mese di febbraio per riprodurre un originale della cancelleria imperiale, è molto probabile che già nei primi giorni del 1311 le nomine vicariali fossero decise e, forse, anche pubblicate. Giovandosi della vicinanza a Enrico VII, Dante avrebbe potuto essere informato del destino amministrativo delle città del nord Italia, dunque anche di Ivrea e del Canavese. Sicuramente gli interessava sapere che un esponente di una famiglia aristocratica fiorentina – gli Uberti, condannati all’esilio quarant’anni prima – diventava adesso vicario dell’imperatore. In ogni caso, i «Nomina viccariorum» scelti da Enrico VII, almeno per quanto riguarda il Canavese, costituiscono il documento cronologicamente e politicamente più vicino alla menzione di questa terra nel finale del canto VII del Purgatorio.

Dopo il soggiorno milanese, Dante trascorse la prima metà del 1311 nel Casentino, ospite del conte Guido di Battifolle presso il castello di Poppi. Da lì scrive a Enrico l’Epistula VII, datata 17 aprile 1311, insieme rispettosissima e durissima, per ricordargli il carattere sacro dell’impero e l’improrogabilità della sua missione. Nell’esordio, il poeta ricorda il proprio pianto, dovuto alla confusione politica e al suo personale destino di exul inmeritus; aggiunge poi che, alla notizia della discesa in Italia di Arrigo, subito i sospiri e il diluvio di lacrime si sono arrestati («protinus longa substiterunt suspiria lacrimarumque diluvia desierunt», Ep. VII 1).

L’infelice esule rimprovera all’imperatore l’eccessivo indugio nell’Italia settentrionale, che favorisce il prolungarsi della tirannide in Toscana, specialmente nella sede di tutti i mali della penisola, Firenze; prima gli dice che i diritti imperiali non sono certo limitati dai confini dei liguri («iura tutanda imperii circumscribi Ligurum finibus», 3), poi – senza nascondere una certa impazienza – esclama che non è giustificabile trascurare l’Italia centrale, Roma e il mondo intero per indugiare in un territorio così ristretto («in angustissima mundi area», 4) come la pianura padana («in valle […] Eridani», 3).

Al di là della contrapposizione geografica, che dipende anche da interessi personali, l’immagine retorica più interessante nell’apertura della lettera è di nuovo quella del pianto: scatenato dall’opera del demonio (ed espresso con il richiamo al Salmo 136, «diu super flumina confusionis deflevimus», calco di «Super flumina Babylonis illic sedimus et flevimus») e poi arrestato dal sopraggiungere di Enrico, è lo stesso pianto dei sudditi, privati della guida imperiale e soggetti alle bramosie di potere di chi «l’un l’altro si rode» (Purg. VI 83); è, insomma, lo stesso pianto di Monferrato e Canavese, che continua nel presente, anche molti anni dopo la morte di Guglielmo VII.

Nella foto: Coblenza, Landeshauptarchiv, Balduineum I best 1 C Nr. 1 (Codex Balduini Trevirensis): la discesa di Enrico VII in Italia con le truppe e le insegne imperiali. Il manoscritto fu confezionato nel 1341 su incarico del fratello dell’imperatore, Baldovino di Lussemburgo, arcivescovo di Treviri, per commemorare i momenti salienti della spedizione italiana