(Cristina Terribili)

Pagare in anticipo il proprio funerale. Ci sono persone che lo fanno, per tanti motivi: per essere certi che vengano rispettate le proprie volontà; perché senza familiari che ci possano pensarci al momento venuto; per approfittare di un’offerta eccezionale dell’agenzia funebre; oppure per prendersi l’ultima libertà di scelta in vita. Dovremo aggiungere alla lista che c’è chi lo fa – o lo ha fatto – perché sente che il proprio destino è segnato da una piaga sociale: quella che si chiama femminicidio.

È il caso della commerciante di Genova uccisa dall’ex compagno, che ha riempito le cronache dei giornali nazionali. Dall’inizio dell’anno – siamo solo al 25 febbraio – sono già 11 le donne vittime degli uomini che avevano amato. Clara, appunto la commerciante di Genova, oltre a non aver mai fatto denunce specifiche – a quanto si sa – aveva provveduto a pagare in anticipo il proprio funerale, forse per non gravare sull’anziano padre, o forse perché sentiva l’ineluttabilità del proprio destino e già si vedeva come una donna morta.

Troppo spesso le donne che accettano di percorrere la spirale di violenza che poi le porta alla morte, sentono di non avere altre vie d’uscita, sentono di non poter fuggire, di non poter chiudere definitivamente con il passato, che non saranno mai in grado di evitare di guardarsi le spalle, di trasalire al più piccolo rumore, di temere ogni trillo del telefono.

Dalla prima occasione in cui hanno accettato di rimanere dopo uno schiaffo, di evitare di incontrare un’amica, di parlare con la famiglia, di interrompere gli studi, in cui hanno accettato di sottostare ad un rapporto sessuale o di avere il proprio telefono sotto controllo, da ognuna di queste prime volte credono, e sono convinte, che non ci sarà speranza per un futuro diverso dalla morte. “Quel rapporto” sembra talmente tanto inesauribile che solo andare incontro alla morte scioglierà un vincolo indissolubile.

Il codice rosso che permette ad una donna di essere ascoltata entro tre giorni dal magistrato è una piccola conquista. Fa bene sapere che i collegamenti tra servizi, strutture, professionisti, parroci, cittadini, che si mettono al loro servizio, pur nell’esiguità dei finanziamenti che ricevono, assicurano accoglienza, assistenza, accompagnamento.

Laddove le forze dell’ordine si trovano in difficoltà nel far fronte a tutti i casi che vengono denunciati, laddove esistono giudici che pensano che un ammonimento al marito violento sia sufficiente per farlo redimere dai propri propositi, laddove le condizioni di vita non permettono spostamenti radicali e laddove la legge deve ancora affinare gli interventi di presa in carico per gli autori di violenza domestica, la comunità può fare la differenza.

Perché, se non vogliamo essere in qualche modo “complici” di altri femminicidi, dobbiamo chiedere che si riparino le falle della giustizia, che i criteri per il fermo in carcere sia rivisto per evitare il reitero degli abusi e delle violenze.

Un altro otto marzo è in arrivo, come ogni anno e come tutti gli anni. Vale la pena di parlare con le nostre figlie, sorelle, amiche, conoscenti, ricordando che se il loro uomo si mostra geloso, non gradisce amicizie, si sente tanto ferito se si passa qualche ora con un proprio familiare, se nel patto d’amore chiede il silenzio su quanto accaduto, se si permette anche un solo gesto fuori luogo… in quei casi quell’uomo non è la persona giusta: va lasciato o assicurato alla giustizia, nell’attesa che siano definiti modelli e contesti di cura.