(Cristina Terribili)

“Fratelli tutti”: davanti ad un titolo così semplice, popolare, quasi banale (anche se banale non lo è affatto) l’ultima enciclica di papa Francesco ha stimolato nella gente della strada qualche immediata, spontanea e pure divertente reazione, che probabilmente un titolo più “teologico” non avrebbe fatto, relegando l’enciclica subito nel dimenticatoio di chi non è familiare a queste cose.

Papa Francesco ci ha abituato ad un linguaggio semplice, in grado di essere compreso da un pubblico molto vasto, ed in grado di generare un pensiero, in accordo o in disaccordo che sia.

Col tipico accento romanesco, circolava tra la gente una domanda: “ma fratello a chi?”. Il Papa, così, ha fatto di nuovo centro.

Ogni volta che noi ascoltiamo qualcosa che ci risuona dentro, cominciamo a fare una serie di riflessioni che nascono da quello che associamo, più o meno consapevolmente a quella parola. La gente si chiede, ed è un bene che salti fuori la fatidica domanda – “ma davvero devo essere fratello dell’immigrato? devo essere fratello del tossico o di quello che…” – che lascia trasparire quasi una voglia, in chi parla, di essere figli unici.

Di fraternità ce n’è assolutamente bisogno. C’è bisogno che ognuno di noi si metta in ascolto e metta in discussione la propria capacità di riconoscere il valore dell’altro e, oltre al valore, ne riconosca il merito di affetto e di dedizione. Perché ogni altro ha un valore ed è degno del mio interesse.

Forse vale la pena riconoscere quanto si sia passati dai termini di individualismo o di globalizzazione senza però mai fare riferimento ad un altro come concreto, reale. Sentirsi fratelli, sentire di appartenere ad una unica famiglia è uno dei fattori psicologici di protezione più importanti; avere un fratello/famiglia permette di sviluppare doti di mediazione, permette di capire cosa significa soprassedere, svegliarsi il giorno dopo e ricominciare, conoscerne gli odori, i gusti.

Avere un fratello/famiglia significa avere una storia in comune e anche se si bisticcia, anche se i conflitti appaiono insanabili, si sarà per sempre legati. Mi soffermo sul racconto, ascoltato alla radio, di un cantante che, dopo aver dato delle monete ad un immigrato, si è sentito porgere delle domande (“Come stai, coma va la vita, come sta la tua famiglia…”).

Domande inaspettate (e per questo ancora più sorprendenti) perché a farle era un perfetto sconosciuto.

Chiedere come stanno i familiari sembra essere una domanda da cugini o al massimo da amici intimi; non è la domanda che ci aspettiamo da una persona che non conosciamo.

In altre parti del mondo, la famiglia è talmente tanto importante che non può essere disgiunta dalla persona. Nazradin, tassista turco in Iraq, mi chiedeva sempre dei miei genitori, distanti migliaia di chilometri e che non aveva evidentemente mai visto né conosciuto. Era uno dei suoi modi di essere fratello.

Come sarebbe il nostro mondo se accettassimo di essere fraternamente legati a sette miliardi di esseri umani che come noi hanno i piedi su questa terra? Nelle pagine dell’enciclica che stiamo piano piano leggendo, non mancheranno le risposte.