(Fabrizio Dassano)

La Giornata mondiale della sindrome da stanchezza cronica si festeggia il 12 maggio e, giustamente, quel giorno avrei voluto starmene a casa, come fosse il 1° maggio, il 25 aprile o il 2 giugno. Invece sono dovuto andare – stanco cronico – a lavorare. Proprio nel giorno in cui si celebrava la stanchezza, la mia pareva esser anche più pesante del solito. Come quando c’è la giornata mondiale dell’acqua: l’acqua è davvero più bagnata rispetto agli altri giorni.

Comunque, non lo dico io che era la giornata della stanchezza: l’ho letto sull’Osservatorio delle malattie rare. Dicono poi che il Covid ha peggiorato le cose: perché c’è anche il problema della “sindrome della capanna” (di cui non so ancora se esiste la giornata mondiale), ovvero della paura di tornare al “prima”. Se prima del Covid ci divertivamo tanto, ora c’è ancora il Covid e anche la guerra!

Comunque, il coronavirus ha cambiato profondamente la vita di tutti, e così è nata la “pandemic fatigue”: a parlarne è stata per la prima volta l’Organizzazione Mondiale della Sanità che, sotto richiesta degli Stati membri dell’Unione europea, ha compilato un importante documento, il “Pandemic fatigue. Reinvigorating the public to prevent Covid-19”, per avere un chiaro quadro di riferimento per pianificazione e realizzazione di progetti nazionali e locali, suggerendo strategie per mantenere e rinnovare il sostegno del servizio pubblico alle norme di sicurezza anti-Covid.

In pratica la “pandemic fatigue” è “la fatica dovuta alla pandemia, una risposta prevedibile e naturale a uno stato di crisi prolungata della salute pubblica, soprattutto perché la gravità e la dimensione dell’epidemia da Covid-19 hanno richiesto un’implementazione di misure invasive con un impatto senza precedenti nel quotidiano di tutti, compreso di chi non è stato direttamente toccato dal virus”. Quindi è evidente che il senso di stanchezza e spossatezza è il risultato della demotivazione dovuta a una pandemia che dura da troppo tempo.

Inoltre, per quanto mi riguarda, sono convinto di soffrire di un altro problema: sono quasi sicuro di soffrire di “burn-out”, che non è un “burnell” tipo fontana d’Oropa, ma deriva dall’espressione inglese “to burn out”, ossia “bruciarsi, esaurirsi”. Praticamente è uno stato di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale. Anche qui l’Oms classifica la sindrome come una forma di stress lavorativo che non si è in grado di gestire con successo. Le persone colpite non sono più capaci di affrontare il proprio carico di lavoro quotidiano con le risorse disponibili e finiscono per soffrire di esaurimento cronico.

Personalmente trovo che questo disagio non si limiti alla sfera professionale, ma si estenda anche alla vita privata, a riprova del fatto che il burn-out non è una diagnosi univoca, ma un fenomeno complesso che si manifesta diversamente da persona a persona: ad esempio non ho voglia di dar da mangiare alle galline ogni mattina prima di andare al lavoro, perché parto già stressato. Così come non dovrei andare a lavorare per evitare di tornare a casa stressato. Così come non mi viene sonno se guardo la tv perché i programmi che ci sono mi stressano. E se sono stressato non riesco a prendere sonno.

Il 6 maggio ho commesso il grande errore di prendere un caffè dopo cena, perché ero stressato da un piatto venuto malissimo, che nemmeno il cane ha voluto mangiare. Così mi sono addormentato solo il 9 maggio. Stressato da tutta questa insonnia. Anche perché la “Giornata mondiale del sonno” si celebrerà solo il prossimo 18 marzo: che stress!