Uscendo dal mio collegio a Roma tutto mi parla delle elezioni di sabato e domenica prossimi. Mi bastano 100 metri dal portone fino alla fermata del bus. Inaugurano il vialetto una decina di manifesti in tonalità rossa (si sa che il quartiere San Lorenzo ha da sempre l’anima decisamente a sinistra). Più in là iniziano i banner coi bei faccioni: predominano le tinte blu, marketing nazionale spiccio. Ogni tanto qualche graffittaro prende alla lettera le istruzioni “Fai una croce su…” e con la bomboletta inaugura la “sua” opera d’arte. Prima che arrivi il mio bus, il 71, ne passano almeno altri tre: tutti sul retro hanno la pubblicità elettorale con ancora tanti faccioni e simboli stampati, questa volta mobili così superano le frontiere dei quartieri.

Sui social è lo stesso: sarà che per passione seguo qualche pagina di design, ma subito gli algoritmi mi propinano le più dettagliate analisi compositive dei manifesti elettorali. Da chi li genera con l’intelligenza artificiale a chi pecca in tema di grafica, gli strafalcioni comunicativi sono pressoché infiniti e spesso volutamente provocati: come che avrebbe detto Oscar Wilde, evidentemente “l’importante è che se ne parli”.

In tutto questo profluvio di messaggi, uno dovrebbe sentirsi invogliato a votare, a fare il proprio dovere di cittadino, ad esercitare un suo diritto. Mi immagino un giovane, magari universitario, con la voglia di cambiare il mondo; questo po’ po’ di impianto accalappia-voti dovrebbe dare i suoi frutti nello stimolare il suo senso civico. Poi, per un attimo smetto di immaginare e cerco dei dati per esprimere un parere, capire quello che si nasconde dietro alla balaustra dell’oggettivismo.

Sbircio qua e là qualche sondaggio sulla partecipazione al voto nei giovani e poi decido di raccogliere qualche impressione, semplice-semplice ma pur sempre indicativa, fra i miei coetanei. Su 21 “intervistati” a riguardo, solo 8 torneranno nelle proprie città di residenza per votare.

Tra questi c’è chi è impegnato in politica: “Credo nell’impegno civico giovanile, ci tengo a impegnarmi nel mio piccolo a fare qualcosa di buono per il paese e a portare avanti i valori che ritengo giusti per la nostra società”, mi racconta Joseph, 22 anni. Tra i 13 che non torneranno a casa per votare c’è chi mostra disinteresse per la tornata elettorale: “Faccio fatica a sentire i candidati come miei rappresentanti, non ho nulla da spartire con loro, non cambia mai niente” mi dice secco Stefano, pure lui ventiduenne. Ma c’è anche chi è rammaricato di non rientrare per andare a votare ed io sono fra questi; sarebbe bellissimo aver la possibilità di dire la mia anche con il voto, ma purtroppo le circostanze non lo permettono.

Forse è utopico pensare che i fuorisede tornino alle urne solo per senso civico così come è altrettanto errato leggere il mancato rientro per votare come un disinteresse verso la società. Resta quindi un mondo variegato, che in qualche modo incide sull’insieme dei risultati ma che incide anche nell’animo di ciascuno di fronte al bivio tra l’eseguire un dovere e il beneficiare di un diritto.