ROMA – Osserviamo la fanciullezza e l’adolescenza spesso con pregiudizio, pensiamo a queste età come quelle delle innocenze e delle spensieratezze… Potremmo trovarci in imbarazzo nel sapere che il 30% dei ragazzi tra i 10 ed i 20 anni ha pensato al suicidio, quando non ha tentato di metterlo in atto, riuscendoci.

Il suicidio non è un atto impulsivo, non è un gioco rischioso finito male. Il suicidio è un percorso, sono idee che si legano piano piano nella mente, accompagnate da tanti piccoli gesti preparatori. Il suicidio si annuncia in modo sottile, viene sussurrato, si può ascoltare, si può fermare. Uno tra gli elementi cardine del suicidio è il tema della perdita: non ci si sente amati. Essere amati coincide con l’essere visti, presi in considerazione, cercati, coinvolti.

Chi arriva a pensare che il suicidio sia l’unica strada percorribile si sente trasparente, ignorato, non coinvolto. In un tempo come il nostro, dove la dimensione del sé avviene anche attraverso i social, proviamo a pensare come si sente un bambino ignorato nei messaggi, che non è famoso a scuola, non ha compagni del cuore, amici o amiche con cui parlare, che si trova ad essere spettatore della vita degli altri. Pensiamo ai bambini o ragazzi che chiedono l’abito firmato o il gioco elettronico uguale a quello degli altri, per poter entrare nel gruppo, per potersi avvicinare all’amico chiedendo di giocare insieme.

A questi giovani non basta sapere che mamma o papà li amano: l’amore della famiglia lo danno per scontato, ovvio, qualcosa che comunque c’è e deve esserci.

Taluni diranno “non sono io che ho voluto venire al mondo”, sentendo un profondo senso di solitudine quando sono in gruppo, quando non sono stati invitati ad uscire, quando nessuno accetta i loro inviti. Dall’esterno apparirà chiaro che quelle relazioni che sembravano tanto importanti, al quale il bambino dava tanta importanza, perdono di interesse; farà spallucce, dirà che non gli importa nulla, il che non significa che si sia risolto il problema, ma che insieme alle relazioni perdute è andata persa anche la speranza di essere riconosciuti. Nascono le curiosità o i riferimenti ad argomenti relativi alla morte, comportamenti ansiosi, ritualità.

Legato all’interesse per l’altro c’è l’interesse per le attività; attività, giochi, hobby che, quando si è bambini, difficilmente sono interessanti di per sé, quanto piuttosto perché si tratta di attività sostenute da relazioni importanti.

Il bambino, sempre per quel bisogno di riconoscimento, ha bisogno di attività che fanno felice la persona con cui le condivide. Se invece nasce un profondo senso di vuoto anche le attività perdono senso, non sono più piacevoli, cresce l’apatia, la noia e nulla sembra scuotere il soggetto dallo stato di indolenza. È qui che si formano idee di fuga, la voglia di provare delle emozioni attraverso comportamenti inadeguati, facendosi del male, usando sostanza illegali, cominciando ad osservare il baratro.

Altri segnali provengono dal cambiamento sostanziale nei comportamenti del bambino; nelle competenze scolastiche, nelle abilità sportive, nell’incremento delle rispostacce e nel rifiuto del rispetto di regole che fino a poco prima venivano condivise.

Non va dimenticato che il bambino cercherà di affrontare i problemi con le stesse modalità che ha osservato nei suoi genitori; se hanno prevalso disperazione e sconforto penserà che non ci sarà mai soluzione a nulla. L’osservazione sarà dunque al primo posto per la prevenzione al suicidio, e sarà importante che per ogni ragazzo ci sia un adulto di riferimento.

È necessario comunicare tra adulti, nella famiglia, nella scuola, nei contesti di socializzazione e sportivi e bisogna collaborare affinché una rete di sostegno ai ragazzi più fragili sia attiva sempre, non solo in tempi di emergenza.