IVREA – Nell’ambito del centenario del nostro giornale, tra le altre iniziative – alcune già sviluppate, altre ancora in cantiere – abbiamo previsto l’intervista agli ex direttori. Andando indietro nel tempo, la prima intervista è riservata a don Giuseppe Scapino, oggi parroco di San Giovanni d’Ivrea, che diresse il giornale dal 1994 al 2002, con due “vescovi-editori”: monsignor Luigi Bettazzi e monsignor Arrigo Miglio. Già negli anni ‘60, quando il calusiese Giuseppe Scapino era ancora giovane seminarista, durante le vacanze estive il suo arciprete monsignor Pittarelli (storico direttore del settimanale diocesano) gli portava le bozze da correggere e nel 1964, già chierico, gli chiese di scrivere il suo primo articolo per Il Risveglio Popolare, sull’esperienza di un campo di lavoro a Taizé. In questi modi don Scapino cominciò a lavorare per il giornale e ad amarlo.

Don Scapino, quando fu chiamato a dirigere il Risveglio Popolare, come impostò la sua linea editoriale?
“Ho cercato di seguire un po’ le orme di don Michele Ferraris, col quale avevo già collaborato, e al quale sono succeduto… La prima cosa fu quella di provare a semplificare il linguaggio: infatti chiedevo ai collaboratori articoli che non fossero troppo lunghi e che colpissero facilmente l’attenzione dei lettori. Lasciai abbastanza spazio ai collaboratori, e cercando di seguire quello che era il tempo del Concilio e post-Concilio, cercai di fare un giornale che fosse da un lato espressione di alcune tendenze che c’erano all’interno della comunità eporediese, e dall’altro di essere creativo nell’impostazione. I mezzi sono sempre stati abbastanza limitati; il giornale richiedeva – ieri come oggi – investimenti economici che non esistevano, molto era lasciato alle collaborazioni volontarie… io stesso, facendo il direttore e il parroco, evidentemente non potevo avere tutto quel tempo e quello spazio a disposizione di un direttore a tempo pieno. In più, c’era il problema – che credo sia ancora in parte presente anche oggi – di imparare a utilizzare tutti i mezzi di comunicazione moderni, che non sono soltanto un fatto tecnico, ma sono anche un fatto di linguaggio e di modo di approcciare la realtà”.

Quale fu il rapporto con il vescovo editore del suo periodo?
“A mettermi alla direzione fu monsignor Bettazzi, poi quando arrivò monsignor Miglio, dopo un po’ di tempo mi ha sostituito. Credo che il motivo principale fosse quello di una certa autonomia e indipendenza che secondo me dovevano essere date al direttore, in quanto il settimanale è sì diocesano, ma prima di tutto deve essere un giornale: cioè non semplicemente un’espressione dell’ufficialità, ma deve entrare nella storia ed avere la capacità di dibattere e non soltanto di far passare la linea della cosiddetta ortodossia”.

Ricorda qualche fatto saliente, del periodo in cui fu direttore del giornale, e che il giornale trattò in maniera importante?
“Abbiamo sempre cercato di essere attenti alla realtà, non soltanto quella eporediese ma anche a quella nazionale e quella mondiale. C’era una rubrica dei fatti del mondo – che curava Mauro Saroglia – e che volevamo fosse un invito a cercare di vedere la realtà non soltanto nell’ottica immediata e localistica, ma allargando gli occhi al mondo intero. È comunque sempre stato un giornale attento alla realtà e ho l’impressione che fosse seguito anche fuori diocesi da molte persone, sia perché ospitava gli interventi di monsignor Bettazzi e sia per il clima di dibattito che abbiamo sempre mantenuto”.

È cambiato il ruolo del giornale di ispirazione cattolica, dai suoi tempi ad oggi?
“Già allora c’era molta discussione anche nella Fisc (la Federazione italiana dei settimanali cattolici, ndr) circa lo statuto ufficiale del settimanale, e mi ricordo che una delle conclusioni alle quali si era arrivati era quella che la linea del giornale è data dal direttore, che è nominato dal Vescovo. Diciamo che il dilemma tra voce ufficiale e voce che deve esprimere la comunità umana oltre che di fede, è un contrasto che forse c’è fin dall’inizio nella vita di un giornale cattolico: ancora oggi credo sia uno dei punti di grande interesse e di grande dibattito, che per altro riprende una tesi che era già stata annunciata da Pio XII in un discorso sulla libertà di parola nella Chiesa, che è una condizione essenziale per la Chiesa stessa… Evidentemente questa problematica non è un fatto soltanto del dopo Concilio ma era già presente prima”.

Sopravvivrà la carta stampata alla supremazia della rete, del web, dei social, di internet?
“Sarà anche per deformazione mia, oltre che per gusto personale, ma preferisco ancor sempre la carta stampata che permette di avere una reazione più meditata e profonda da parte del lettore: le altre forme di comunicazione suscitano molto interesse nell’immediato, ma la carta stampata permette di rileggere, di precisare, di cercare di capire meglio, di approfondire… Non sono così convinto che le cose ormai siano decise in favore del web. Faccio un esempio: qualche anno fa si diceva che il disco in vinile era ormai superato dai cd, oggi il vinile sta ritornando di moda perché offre una qualità migliore. Certamente è necessario riuscire a cogliere il messaggio che viene dai nuovi mezzi di comunicazione, non si possono ignorare, ma la carta stampata continuerà a giocare il suo ruolo…”.

Che cosa augura per i cento anni del Risveglio Popolare che si celebrano quest’anno?
“Auguro che ci sia un rilancio perché credo che nella Chiesa ci sia molto bisogno di una comunicazione che non sia semplicemente fuori dalla storia, ma che aiuti ciascuno di noi a entrare nella nostra storia: a tentare, magari sbagliando, di avere una lettura e una capacità di intervento che siano personali”.