Venerdi 12 aprile, il direttore di questo giornale Carlo Maria Zorzi modererà una tavola rotonda dal titolo “Diverso? E diverso da chi? Sfuggire allo stigma in una società distratta” che si terrà a Biella, alle 20.45 presso la sala conferenze del Museo del Territorio e a cui parteciperanno illustri relatori che operano nell’ambito della salute mentale. L’intervento che segue intende rafforzare l’idea e spiegare le ragioni del perché è necessario contrastare lo stigma per abbassare il rischio di marginalità e di esclusione sociale delle persone che vivono questo disagio.

 

(Cristina Terribili)

E se domani ci imponessero una sola padella per cucinare o un solo percorso possibile per arrivare al lavoro o a scuola? E se domani ci obbligassero ad annusare un solo tipo di rosa o ci imponessero di indossare solo un abito? Ciò che mi atterrisce di più è questa domanda: ma se domani ci obbligassero ad un solo pensiero, ad una sola emozione, ad un solo modo di esprimere noi stessi? Perché al di fuori da quel pensiero, da quel modo, da quel sentire, fossimo ritenuti strani, malati, pericolosi? E se invece provassimo a pensare che è la diversità che ci permette di esprimerci, che ci permette di apprezzare ciò che ci piace, che ci permette di creare, di sognare, di incontrare chi ci piace?

Alla fine degli anni Novanta, una sociologa affetta dalla sindrome di Asperger ha coniato il concetto di “neurodiversità”, definendo così le differenze neurologiche e interpretandole come variazione umana. Una variazione non è qualcosa di buono o cattivo in sé, non è qualcosa di giusto o sbagliato in assoluto, non è qualcosa di sano o di malato. Sappiamo a quanti errori dobbiamo certe scoperte o la creazione di qualcosa di nuovo. Ebbene essere neurodiversi, non significa essere strani o malati, significa solo avere un cervello con delle variazioni neurologiche. Se il termine neurodiversità è stato dapprima applicato esclusivamente alla sindrome di Asperger, esso ha successivamente abbracciato i disturbi dell’apprendimento, i deficit d’attenzione, la sindrome di Tourettes, i disturbi dell’umore e questa lista si allarga sempre più grazie a movimenti mondiali che uniscono persone che valorizzano i “cervelli diversi”.

Riconoscere la diversità permette di riconoscere l’identità. Se poi riuscissimo a fare anche il passo successivo – cioè pensare che quelle caratteristiche neurocognitive hanno bisogni, diritti, la possibilità di potersi esprimere al meglio in certe situazioni piuttosto che altre – permetteremmo lo sgretolamento di quei muri tipici della discriminazione, della malattia intesa come qualcosa di sbagliato, del concetto di malato come appestato, come qualcuno che va isolato. Riconoscere le neurodiversità, riconoscerne i diritti e i bisogni, permette di distinguere quelle disabilità che appartengono alla struttura neurologica in sé e quelle definite dall’ambiente.

Senza scomodare i neuroni, se devo condurre un passeggino e le strade sono ostacolate da barriere architettoniche, avrò delle difficoltà e quindi degli handicap che non avrei se avessi passaggi liberi con scivoli o pedane. Il mio percorso con il passeggino, quello che rende disabile ogni mamma, papà o nonno o tata per circa i primi tre anni di vita di un bambino, varia a seconda dell’accessibilità delle strade. La stessa cosa vale per la neurodiversità, la stessa cosa vale per un’altra qualsiasi patologia organica.

Il principio dell’uguaglianza che consente di avere tutti gli stessi diritti, gli stessi accessi ad un sistema, deve basarsi sul riconoscimento delle differenze e solo così riuscirà a garantire servizi di cura ma anche una società capace di abbracciare tutti e di non far sentire qualcuno escluso perché nessuno di noi è “sano” per antonomasia.

La sfida è quella di allargare il concetto di cura e inserire in questo il bisogno di alleviare una sofferenza. La dimensione della sofferenza è quella che ci rende uguali, che si soffra di colite spastica o di un disturbo mentale. Accanto a cure farmacologiche abbiamo anche bisogno di sentirci sicuri di accedere a un mondo più ampio, capace di riconoscere che ognuno di noi può trovarsi in uno stato di disagio e traghettarci verso uno stato di benessere. Se è chiaro che lo stato di disabilità venga posto spesso dalle “barriere” che incontriamo nelle nostre “strade”, allora la soluzione sarà investire (oltre che sulla farmacologia) nel modificare quegli elementi della città, del paese, dei pregiudizi delle persone che limitano, generano malessere e sofferenza. Se questo sarà il presupposto che orienta i servizi intorno alla persona, la neurodiversità non rischia di essere il modo per limitare il riconoscimento dei bisogni o della spesa sanitaria, ma sarà ampliare lo sguardo su un benessere accessibile a chiunque e quindi rispettoso di tutti.