(Susanna Porrino)

In queste settimane ho visto nuovamente riportata su alcuni giornali una notizia che risale ormai a qualche mese fa, ma che era stata inizialmente trascurata dai media per lasciare spazio alla trattazione della pandemia in corso.

La notizia in questione riguarda uno studio del Pew Research Center di Washington, che aveva destato un certo scalpore perché evidenziava l’impreparazione e l’inconsapevolezza di una percentuale preoccupante della popolazione americana di fronte al tema dell’Olocausto. Una discreta componente dei cittadini intervistati si è dichiarato completamente all’oscuro di molti aspetti relativi agli eventi trattati, mentre altri avevano assunto posizioni negazioniste o antisemite, ripetutamente condannate dai media per la loro pericolosità e infondatezza.

L’indignazione che aveva seguito queste dichiarazioni risulta perfettamente sensata e comprensibile. Occorre tuttavia sottolineare come essa perda via via di forza e convinzione se messa a confronto con il tacito assenso con cui oggi si accetta la più totale inconsapevolezza e noncuranza del mondo occidentale di fronte alle tragedie e alle catastrofi che scuotono e percorrono il resto del mondo.

Conoscere la devastazione che ha vissuto l’Europa, e in particolare il popolo ebraico, durante lo scorso secolo è fondamentale, ma non giustifica in alcun modo l’indifferenza con cui stragi dello stesso genere oggi non vengono neanche menzionate nella nostra società.

Pur muovendosi generalmente nella più completa cecità del presente che lo circonda, essa ha infatti troppo spesso reso il passato una categoria morale a cui rifarsi in modo sterile e infruttuoso, la cui conoscenza è utile per dimostrare una validità intellettuale da cui non si pretende in alcun modo una comprensione oltre il nozionismo.

Se è vero che conoscere la propria storia a fondo significa consolidare su di essa un’identità nazionale che altrimenti andrebbe perduta, è però altrettanto vero che in una realtà globalizzata come la nostra ostinarsi a ricercare solo il proprio passato, senza premurarsi di conoscere il presente che si evolve con noi, significa rinchiudersi in una dimensione di staticità e immobilismo in cui tutto ciò che ci rimane per analizzare la realtà sono una buona dose di ipocrisia e perbenismo.

Non sforzarsi di esplorare le dinamiche con cui si stanno ripetendo in altri Paesi gli stessi eventi che i nostri popoli hanno vissuto uno o più secoli fa ci rende cittadini inconsapevoli, mossi dall’illusione che esista una sola realtà che non ha più bisogno di essere discussa o interpretata secondo altre prospettive.

Pur potendo utilizzare il passato come strumento per leggere un’età contemporanea che ancora presenta problemi e difficoltà, abbiamo invece scelto di cristallizzarlo in un pezzo di storia nascosto da una lente che lo pone sotto ai nostri occhi solo in bianco e nero, rendendolo lontano e soprattutto isolato e irripetibile nel futuro, trasformandolo in un eterno e ripetuto canto di elogio al presente che siamo riusciti a costruire.

Credo che, come società, dovremmo imparare a fare un passo indietro e a riconoscere quanto spesso abbiamo definito “conoscenza” solo ciò che rientrava nei limiti della nostra cultura e delle nostre abitudini, autorizzandoci così a costruire sempre di più una mentalità collettiva sorda agli stimoli esterni e quasi completamente autoreferenziale.

Abituati ad una comunicazione fatta di immagini che si imprimano nella nostra memoria per il maggior tempo possibile, in loro assenza abbiamo creato una retorica fatta di emozioni e sentimenti che abbiamo applicato anche alla storia.

Ma se è giusto provare indignazione e riguardo per le ingiustizie e le sofferenze del passato, allora è giusto imparare a scontrarsi anche con la crudezza e il dolore che oggi si ritrovano in altre situazioni: o, perlomeno, a scontrarci con la nostra difficoltà di comprenderlo ed estinguerlo, evitando di nasconderci dietro un velo di perbenismo.