In redazione, poco prima di Natale abbiamo ricevuto dal carcere di Ivrea, per il tramite di un volontario, la lettera di Vito focalizzata sul tema, purtroppo sempre di attualità, del femminicidio.

La pubblichiamo per offrire spunti nuovi di riflessione, tenendo conto del contesto dal quale la lettera arriva e nel quale è stata scritta. E siccome il contesto è sempre molto importante, abbiamo chiesto a Silvio Salussolia – volontario dell’associazione Tino Beiletti e impegnato nella redazione del giornale “Alba” – di spiegarcelo meglio.

Ecco come ce lo presenta e come “nasce” la lettera di Vito.

Lo scritto di Vito nasce all’interno della redazione dell’Alba, giornale scritto da persone detenute del carcere di Ivrea. La redazione si ritrova mediamente due volte a settimana, un paio d’ore e il giornale esce ogni tre mesi circa, quando può. All’interno della redazione si sviluppano sempre ampie e interessanti discussioni, su argomenti vari, ogni tanto qualcuno riesce, con fatica, a scrivere; perché noi crediamo che la scrittura sia uno dei primi passi per avviare un processo di recupero, ripartenza, riparazione e preparazione per un progetto di uscita dal carcere, che sia a breve distanza o fra anni. Ho visto, in questi anni, che la scrittura di chi è ristretto è segnata da questa condizione, e tuttavia riflette, almeno nelle intenzioni, un lato positivo della persona; qualcuno scrivendo scopre lati di sé che non conosceva. Ci sono state persone che mi hanno consegnato pochi pensieri su un foglio sgualcito, di scrittura molto incerta, ma con una fierezza quasi avessero scritto l’incipit di un romanzo e molto probabilmente per loro erano parole molto importanti. Non è facile scrivere dentro le mura, non perché il pensiero non sia libero (è una delle poche libertà concesse dentro il carcere) ma perché le emozioni sono tante e tali da rendere intricato, complesso e faticoso ogni tentativo di scrittura, soprattutto da parte di chi prima faceva tutt’altro che scrivere. La lettera di Vito riflette tutto ciò”.

La nostra Cristina Terribili, nella rubrica “Testa e cuore” , ci aiuta a capire meglio non solo il fenomeno grave del femminicidio, ma la sfida che esso ci lancia come persone e come comunità.

Di più: ci offre le chiavi per tentare di capire anche l’approccio, la considerazione, il desiderio di contrastare il femminicidio che nasce in Vito nelle condizioni di restrizione che vive, ma anche di tutti noi che in altra condizione viviamo.

Crediamo, in questo modo, di metterci tutti – noi dalla redazione e voi che ci leggete – davanti ad una realtà drammatica della nostra quotidianità, al modo di pensarla e viverla diversamente secondo l’esperienza che abbiamo maturato, per tutti – però – con il desiderio che questi crimini non abbiano a ripetersi.

Ma anche con un rischio che solitamente nasce quando, purtroppo, i fatti diventano ripetitivi e la ripetizione rischia di anestetizzarci e renderci malauguratamente indifferenti.

c.m.z.

Lettera di Vito

Oggi, sabato 10 dicembre 2022, come tutti i giorni mi sono svegliato nella mia cella. La routine è la solita: faccio il caffè, mi lavo la faccia, accendo la tv e al telegiornale danno nuovamente la notizia di un femminicidio. Ogni giorno un nuovo nome, ragazze giovani, piene di sogni, donne mature con figli… i nomi sono sempre diversi ma le storie sono tutte simili tra loro. Uomo e donna prima si conoscono, inizia l’attrazione reciproca e infine si promettono amore eterno; su questa promessa inizia la convinzione dell’uomo di essersi appropriato di un’altra vita, che percepisce come sangue dello stesso sangue, ma la realtà è diversa: un’estranea che in un momento d’amore ha fatto scappare la parolina “io e te per sempre”. E da queste poche parole scatta quel meccanismo perverso nella mente dell’uomo. Per un uomo il fallimento è duro da accettare, la paura che qualcuno meglio di me possa rendere a lei la vita più bella ti uccide. Parlo in questo modo poiché questa esperienza l’ho vissuta sulla mia pelle, sono stato lasciato durante la mia carcerazione. Diciamo che ero già pronto al fatto che l’avrei persa per un altro “meglio di me”, e di questo mai le avrei dato colpe, anzi le ho sempre augurato di trovare tutta la felicità del mondo, che io non potevo darle a causa dei miei reati.

La mia prima carcerazione è stata la più dura, stavo insieme a una ragazza da 10 anni, ma tra alti e bassi l’ho cresciuta. Lei andava contro il volere dei suoi genitori per stare con me, io non avevo una bella reputazione e per questo i suoi genitori e le sue amiche spingevano per farci lasciare: ma il risultato era sempre lo stesso, lei era lì con me. Io davo tutto per scontato, l’amavo alla follia, mai mi sarei immaginato una vita senza di lei. Per me ha versato tante lacrime quella povera ragazza. Io sono sempre stato contro la violenza sulle donne, mai ho alzato le mani su una donna. Uscivo di nascosto, lei lo scopriva e piangeva per giorni. Mia madre le diceva continuamente di lasciarmi, perché per mia madre lei era diventata come una figlia. Quella volta che mi arrestarono e la persi avevo dato tutto per scontato. In carcere ho pianto perché ero consapevole che in quel momento un altro uomo la stava rendendo felice. Si è sposata ha avuto dei figli ed io ero in carcere, la sofferenza era diventata insopportabile, un malessere difficile da spiegare, ma nel dolore c’era del bene: mai ho pensato di vendicare su di lei la mia sofferenza, se ami non puoi uccidere. La fine del rapporto fa parte della storia e bisogna riuscire a farsene una ragione, per difficile che sia. Che uomo sei se all’udire “non ti amo più” la perseguiti, la terrorizzi, la minacci? E se tornasse con te come puoi vivere con una donna che non ti ama più? Dov’è la dignità di un uomo? Come si risolve il problema del femminicidio? Da carcerato posso dire che dopo il reato di pedofilia, per gravità c’è quello di violenza sulle donne, sulla donna che hai amato. In carcere chi si è macchiato di quel reato viene portato in sezioni protette, perché nelle sezioni normali non avrebbe vita facile Quando uscirò vorrei portare a realtà un mio progetto: trovare una decina di persone contrarie alla violenza e disposte a impegnarsi, fare un gruppo sociale e costituire una “no profit” finalizzata ad aiutare le donne che, ancora vittime di abusi dopo denunce agli organi competenti, possano così trovare un aiuto, con un semplice messaggio. Non voglio passare come il giustiziere, voglio essere di aiuto a queste donne andando semplicemente a parlare con questi uomini “non più amati”, e se necessario raccontare loro la vita in carcere di chi abusa una donna. In carcere, anche se sono protetti, non sono intoccabili, e spesso e nonostante tutto vengono malvisti e maltrattati da tutti. Non risolverò il problema “femminicidio”… Ma da nord a sud ho molti amici, ex detenuti o gente che nella vita ha sbagliato, ma ora è disponibile aiutare: gente che viene sempre ricordata per gli errori commessi nel passato, ma oggi è disponibile a svolgere un ruolo positivo. Non so se riuscirò a realizzare questo progetto ma ci proverò. Con “i deboli” sono bravo a dialogare, e qui bisogna far capire loro che la forza non è la violenza verso la donna, ma l’accettare la fine di una storia. Un grazie lo devo alle mie ex, che da questo punto di vista mi hanno fatto crescere e maturare! È sbagliato rispondere alla violenza con la violenza, a volte le parole giuste, dette dalla persona giusta, portano al risultato sperato. Questo è un piccolo grande progetto, e anche una speranza: non vogliamo sostituirci a nessuno, però possiamo arrivare dove altri non riescono arrivare.

Vito

Testa e cuore di Cristina Terribili, psicologa-psicoterapeuta

Una lettera dal carcere è un bene prezioso, ci vuole cura nel maneggiarla, ci vuole tatto e sensibilità per tutto il carico che porta con sé, per il messaggio, per la speranza, per il coraggio che Vito ha riposto in tutti noi lettori.

Quando si parla di carcere, di detenuti, si fa riferimento a qualcuno e a qualcosa che accade, e di cui poi non si sa come va a finire.

Si attende il momento della condanna ma poi, tutto quello che attiene alla detenzione, al percorso di recupero, al progetto di uscita è sconosciuto ai più.

Non si conosce e riconosce abbastanza il lavoro di tanti operatori che fanno in modo che il contesto carcerario sia anche un’opportunità, la possibilità di aprire un nuovo scenario intorno all’esistenza di una persona che può cambiare vita.

La lettera di Vito ci parla proprio di dare un nuovo senso alla propria strada, ci descrive come il carcere gli ha dato modo di pensare e di maturare, di usare la propria esperienza al servizio di altri.

La piaga del femminicidio può sconvolgere tutti, anche chi ha commesso altri tipi di crimini.

Il carcere ha comunque le sue regole, esplicite o tacite: non si fa del male alle donne o ai bambini.

Il codice d’onore all’interno del carcere non ammette deroghe, e sezioni speciali sono previste per evitare che a crimini violenti si risponda con altrettanta violenza.

Ma chi commette violenza sulle donne o sui bambini va curato, vanno predisposti servizi e luoghi di cura adeguati, strutturati in modo tale da accompagnare verso un processo di riparazione profondo e duraturo.

Chi lede una donna o un bambino ha un mondo interno disturbato e per questo, attraverso percorsi specialistici, va messo in condizione di non nuocere nel futuro a sé o ad altri e la strada che deve percorrere deve prevedere tempi, strumenti e professionisti specifici e altamente preparati.

L’esperienza di Vito e il suo desiderio di mettere a conoscenza chi commette violenza sulle donne di quanto accade in carcere, non è un tipo di intervento sufficiente per scongiurare la messa in atto di azioni contro le donne.

Però Vito potrebbe trasferire la consapevolezza del suo percorso ad altre persone, ai giovani per esempio, a quei ragazzi che pensano che modelli di vita malavitosi possano essere praticabili.

Il racconto della sua storia all’interno dell’istituto penitenziario, quello che a Vito è costato in termini di libertà, in termini di limitazioni, in termini di profonda riflessione sul senso della propria esistenza e sul desiderare una vita diversa, potrebbe dare slancio a qualche persona che si trova in bilico e indirizzarlo verso una scelta di legalità.

Così come lo scrivere, anche il narrarsi e dare senso alla propria vita ascoltando le vite degli altri può permettere la prosecuzione di un percorso virtuoso fuori dal carcere.

Recuperare la propria esistenza dopo un’esperienza di detenzione avviene attraverso un processo di contatto con tutto quello che le sbarre hanno tenuto fuori.

Stringere di nuovo legami positivi e lontani da un passato costellato di errori può favorire quel mantenere saldi i propositi di una vita senza il ricorso ad azioni criminose più o meno gravi.

Vito potrebbe dare modo a tante persone in difficoltà di dare voce ai propri disagi e da questo punto partire per trovare alternative ricche dei valori della solidarietà e del sostegno reciproco.

Potrebbe raccontare del percorso fatto per dare dignità e rispetto alla sua persona, e trovare altrettanto ascolto e attenzione da parte di chi può scorgere in Vito un mentore, e garantire anche allo stesso Vito di riprendere quel percorso di risocializzazione fuori, e successivo all’uscita dal carcere.

Destinando la propria esperienza a servizio degli altri, Vito può riprendere contatto con il mondo esterno in un ruolo attivo e responsabile. Quel ruolo che si addice ad una persona che ha saputo trarre esperienza dai propri errori e che riesce ad avere uno sguardo critico nei confronti di se stesso e delle trappole che la vita, di tanto in tanto, pone nella strada della vita e che ha deciso di affrontare il proprio futuro con la corretta considerazione di sé e degli altri.

Nelle parole di Vito la voglia di riscatto.

Redazione Web