(Susanna Porrino)

Dopo l’ondata di incendi che lo scorso anno aveva imperversato per vari mesi in Australia – uno tra i primi segnali evidenti di un clima che cominciava a cambiare in maniera più significativa che in passato –, quest’anno i disastri naturali legati all’aumento delle temperature sono ormai troppo numerosi e troppo vicini a noi per poter continuare ad essere ignorati: dall’alluvione in Germania con più di centocinquanta morti, alle ondate di calore che in Europa stanno colpendo soprattutto l’Inghilterra, l’estate 2021 sembra restituire anche se solo in minima parte le immagini distopiche a cui gli scienziati tentavano di prepararci da diversi anni.

Ai lockdown imposti dai Governi per prevenire la diffusione della pandemia si stanno ora sostituendo le limitazioni e le restrizioni per arginare o sopravvivere alle catastrofi naturali che l’evoluzione del clima sta provocando; una situazione di estrema precarietà in cui a dettare legge non sono più i decreti emanati dai Governi, ma il conflitto millenario tra una natura che ci eravamo illusi di poter controllare e il desiderio di sopravvivenza dell’uomo.

Potremmo domandarci in che modo abbiamo potuto lasciare crescere e svilupparsi il problema pur conoscendone le ragioni e le conseguenze, ma forse è più utile domandarci se abbiamo cominciato ad affrontarlo nella maniera corretta.

L’uomo sembra aver sviluppato nei secoli, forse per un istinto inconscio di autodifesa, la tendenza ad estraniarsi dalla realtà quando essa sembra preannunciarsi come troppo intimidatoria o difficile da controllare; le grida al complotto, le accuse di menzogne da parte dai governanti, le critiche alla corruzione o alla scarsa competenza del panorama tecnico- scientifico sono state un esempio particolarmente evidente, in questi due anni di pandemia. Ma anche le accuse mosse in campo ecologico ai governi e alle multinazionali, così come quelle rivolte alle precedenti generazioni e alla noncuranza con cui esse hanno inquinato e danneggiato l’ambiente, per quanto storicamente e scientificamente sensate, nascondono altri problemi.

È indubbio che fino a quando a contribuire all’inquinamento saranno industrie di portata colossale, senza che le autorità nazionali si attivino significativamente per porvi qualche freno, anche il tentativo di risparmio energetico o idraulico dei singoli risulterà insufficiente; ma non possiamo astenerci dal riconoscere e affrontare il fatto che siamo una società cresciuta nei vizi e in molti casi in una vera e propria sregolatezza, fautrice di uno stile di vita che non solo è divenuto insostenibile per il pianeta, ma si sta rivelando sempre più limitante anche per la gestione di altre situazioni.

La pandemia, e le fortissime ostilità che i vari governi hanno raccolto nell’imporre chiusure e restrizioni, hanno dimostrato la fatica che emerge di fronte all’idea di rinuncia collettiva in un popolo abituato a possedere tutto. Sorprende ascoltare personaggi pubblici e giovani influencer parlare di cambiamento climatico e inquinamento, e poi scoprire che trasmettono sulle proprie piattaforme stili di vita all’insegna del superfluo e dello spreco: persino il trend minimalista, che comincia timidamente a raccogliere un discreto seguito anche online, non fa altro che mettere in luce la difficoltà crescente che l’uomo moderno prova nel rinunciare a ciò che non è realmente essenziale.

La tendenza all’accumulo in cui siamo cresciuti, e il desiderio insaziabile di ostentare ricchezza, bellezza, uno status sociale che spesso non riflette pienamente la realtà, sono il reale problema che presto o tardi le società più avanzate saranno costrette a riconoscere e affrontare.

L’incapacità moderna di rinunciare a qualunque aspetto del proprio benessere è di fatto ciò che mantiene in vita le grandi multinazionali e i grandi produttori di merci altamente inquinanti, dal campo dell’abbigliamento e della cosmetica a quello della tecnologia o dell’alimentazione, e non può essere sufficiente una discussione teorica sul ruolo fondamentale delle autorità nazionali se non si è disposti a rinunciare almeno in parte ad alcune delle proprie abitudini: ciò che sta avvenendo ci chiama di fatto a mettere in discussione i nostri bisogni come collettività ma anche come individui, e ci prepara ad essere pronti a selezionare ciò che è realmente importante.