“Sebben che siamo fumne, storie di donne piemontesi” è il titolo del libro curato da Lidia Brero Eandi per le edizioni Savej e che ospita, oltre ai suoi, anche i contributi di Cristina Ricci, Linda Ferrando, Manuela Vetrano, Valentina Cabiale e di Luigi Cabutto. Stampato per i tipi della Stamperia Artistica Nazionale nel dicembre 2023, la copertina rosa porta l’illustrazione di Elisa Talentino e rappresenta gruppi di donne impegnate nel tiro alla fune.

Un’immagine eloquente che rende lo spirito della narrazione delle autrici: la fatica di essere donne in una società maschilista, la fatica di far valere i propri diritti e di lottare duramente per i propri sogni, di valenza individuale o collettiva. Sono 176 pagine riccamente illustrate a colori che partono dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri. Sono nove storie suddivise in quattro sezioni: Sulle barricate, Non è un mestiere per donne, La forza delle parole, Imprenditrici della carità. Aprono le mondine con le loro lotte per ottenere un trattamento umano, una paga dignitosa e le otto ore lavorative tra le risaie del vercellese, piccole conquiste poi cancellate dal fascismo, seguite a ruota dalle sarte di Torino che dovevano lavorare 14 ore al giorno, in lotta per la dignità e il riconoscimento di un lavoro più giusto che prenderà la forma di un contratto tessile solo nel 1947.

La donna accessorio inferiore dell’uomo: studia, si laurea in giurisprudenza, diventa la prima avvocatessa di Torino, Lidia Poët, ma viene radiata dal suo stesso albo con l’accusa infamante di essere una donna, decretata nientemeno che dalla Corte di Cassazione.

Non cedette e si occupò per trent’anni per i diritti dei carcerati, diventando una delle colonne del diritto penitenziario non solamente italiano. Si occupò dei minori abbandonati innestando la presa di coscienza che non poteva esserci un unico organo giudicante e penale per tutti, senza distinguere minorenni da maggiorenni. Donne accessori di secondo piano anche nella resistenza, un ruolo quasi sempre sottovalutato dalla vulgata ufficiale, contributi anche di sangue spesso dimenticati, ma non per questo del tutto sconosciuti oggi.

L’emancipazione attraverso l’impresa dei sogni femminili è invece il racconto della creatrice delle bambole Lenci, l’acrostico di “Ludus Constanter Industria Est Nobis” di Elena König, torinese e figlia di una intellettuale austriaca e di Francesco, chimico agrario di origine tedesche. Con la morte della figlioletta, Elena, si diede alla creazione delle bambole, inventò col fratello il panno Lenci e le sue bambole furono richieste da tutto il mondo. Artisti famosi collaborarono ai suoi progetti, fu molto apprezzata da Walt Disney e un classico della letteratura infantile nordamericana, il best sellers “The lonely doll”, della fotografa e modella Dare Wright, utilizzò come protagonista la bambola Edith, prodotta a Torino da Elena König.

Il secondo dopoguerra vede anche due eminenti scrittrici: Natalia Ginzburg e Lalla Romano. La prima, nata Levi, ultima di 5 figli dell’istologo Giuseppe, manterrà il cognome del marito, picchiato a morte nel braccio tedesco del carcere di Regina Coeli e diventerà la scrittrice della casa editrice Einaudi con il suo romanzo “Lessico familiare” premio Strega 1963. Lalla Romana scala la vetta da scrittrice aggiudicandosi il premio Strega 1969 con “Le parole a noi leggere” che narra il rapporto duro ed ermetico col proprio figlio. Chiudono il volume due grandi figure femminili dell’imprenditoria della carità”: la prima è la marchesa Giulia Colbert di Barolo con un’infanzia vissuta ai tempi della rivoluzione francese e durante i grandi massacri della Vandea perpetrati a danno di popolazioni contrarie alla rivoluzione e ai nobili. Alcuni suoi familiari verranno ghigliottinati: sua nonna e sua zia.

È il ritratto di una donna laica e aristocratica, coltissima e vicina al Vangelo. Poi sposa a Torino Carlo Tancredi dei marchesi Falletti di Barolo, al seguito della corte napoleonica, damigella di Josephine Beauharnis, moglie di Napoleone Bonaparte. Presto vedova, è una donna molto ricca e con amicizie potenti. Non potendo avere figli con il marito aveva adottato i poveri della città, iniziando a muovere il servizio dedicato agli ultimi della società torinese, aprendo loro cuore e portafoglio. Si impegna per lo stato delle carceri, per le ragazze derelitte, per la tutela della maternità e dell’infanzia. Fonderà diverse istituzioni e vivrà anche momenti duri, vittima dell’anticlericalismo cittadino.

L’ultima figura tratteggiata è quella di Lia Varesio, la donna che lavorava come assistente sociale alla Fiat e che un mattino recandosi al lavoro si trovò davanti una donna scalza, scarmigliata che le urla in faccia “Grido al mondo la mia disperazione, ma nessuno si ferma”. Lia comprende che occuparsi dei disperati, disorientati, barboni, sarà la sua strada futura, dando voce e dignità agli ultimi degli ultimi, quelli che vivono per strada.

Inizia alla fine degli anni ’70 e continua nel decennio successivo, dove il terrorismo brigatista fa vivere nella paura. Nel 1979 le si affiancano due padri Camilliani che le daranno una mano. Sono i tempi in cui il cardinale di Torino, Michele Pellegrino sceglie i poveri con la lettera pastorale “Camminare insieme” in quella città in cui la povertà aumenta e le fabbriche iniziano a chiudere. La visione radicale del Vangelo accomunano Lia Varesio e i Camil-liani, poi le loro strade si divideranno: i padri fonderanno la comunità “Madian” e Lia Varesio la “Bartolomeo & C.”

Un libro che va oltre l’intento femminista, se così si può definire, un libro che pone queste donne straordinarie senza retorica nel loro posto della giusta riconoscenza, forse non tanto solo perché donne ma quanto esseri umani che hanno saputo donare.