(Cristina Terribili)

ROMA – Oggi ricorre la tradizionale Giornata nazionale della Salute Mentale, che non manchiamo di ricordare come già facemmo l’anno scorso. Ma entriamo dentro al significato di questa giornata passando per un film, un modo forse un po’ originale anche per evitare di ripeterci su tematiche che in qualche modo restano sempre le stesse col passare degli anni. Il film è “Joker” che ha ricevuto parecchia attenzione, e sul quale il parere del pubblico è contrastante. Certamente è un film che non ha lasciato indifferenti.

“Joker” è un piccolo compendio di psicopatologia e mette in luce tutti gli elementi che sviluppano e mantengono un disagio mentale. Predisposizioni individuali, biochimica e fattori sociali (cioè quello in cui si sostanzia la malattia mentale) sono condensati in due ore di film.

Quanto alla predisposizione individuale, il personaggio l’ha ereditata dalla madre, elemento fragile della storia, che ha in parte vissuto lo stesso isolamento sociale del figlio. Anche la biochimica gioca un ruolo importante, perché i fattori di stress, soprattutto se prolungati, modificano l’assetto di tutte quelle sostanze (ormoni, neurotrasmettitori e neurorecettori) che, se in equilibrio, ci consentono un benessere psicofisico in generale.

Ma quello che sconvolge, sin dai primi fotogrammi, è l’ambiente sociale in cui Joker vive. La violenza, l’isolamento, la derisione, la mancanza di servizi, la mancanza di cure (psicologiche, farmacologiche ma, prima di tutto umane), portano un essere umano ad evolvere nella follia.

Se spesso il termine follia viene associato a qualcosa di repentino e inspiegabile, in questo racconto esso invece risulta chiaramente identificabile. La storia del personaggio – il percorso lungo il quale Arthur diventa Joker – viene sfogliata passo dopo passo; i flashback ci narrano del passato, delle esperienze precoci di violenza domestica, di abbandono, di maltrattamento, di solitudine… solitudine che nella pellicola si sostanzia in pochissimi dialoghi.

Le immagini hanno il sopravvento e caratterizzano il vuoto o il rumore, che accompagna la vita del protagonista. Anche l’amore a cui Arthur può aspirare è un amore immaginato, un’allucinazione. Perché un individuo come lui non può essere amato, non può trovare affetto, comprensione o parole gentili. Anche chi, da spettatore osserva l’evolversi della storia, ha difficoltà a riconoscere che l’unica persona che usa toni pacati verso il personaggio, è Gary, il collega di lavoro che sopravvivrà alla carneficina. La sopravvivenza di Gary è una speranza, una luce nella spirale di vendetta in cui il protagonista cade, la possibilità che Arthur offre a sé stesso di poter discriminare tra chi ha contribuito al suo dolore e chi no.

“Joker” va tenuto a memoria perché ci indica tutti i possibili momenti in cui si sarebbe potuti intervenire differentemente, in cui ogni figura, all’interno della vita di questo uomo, si sarebbe potuta inserire per cambiare la vicenda, in cui la possibilità di una scelta diversa era dietro l’angolo ma è stata sopraffatta da qualcosa che non è andato per il verso giusto.

“Joker” ci riporta alla luce il tema della malattia mentale che spesso desideriamo ignorare, relegare ai fatti di cronaca, che desideriamo rimanga qualcosa lontana da noi. Eppure la semplicità di questo individuo, i suoi occhi sparuti, ci chiedono aiuto, ci chiedono compassione, ci invitano a pensare che il ruolo dell’ambiente – umano e sociale – in cui si vive è di profonda importanza per chi è fragile.

Quando la genetica o il contesto familiare sono fragili, l’unico punto di riferimento, l’unico sollievo può essere il mondo degli altri. Se il mondo degli altri accoglie e non isola, se sorride e non deride, se si rende capace di offrire anche una sola opportunità, le storie di tanti esseri umani, potrebbero cambiare radicalmente.