(Cristina Terribili)

Parlando della salute mentale è necessario ripensare i servizi di salute mentale per le persone con patologie mentali in fasi acute, agli interventi possibili, alle risorse umane attivabili per sostenere chiunque ruoti o possa ruotare intorno a chi, in un determinato momento, vive uno stato alterato di coscienza. Lo sanno bene le famiglie coinvolte quanto possano essere sole in certi periodi difficilissimi della vita di chi soffre una malattia mentale. Costretti a vivere notti insonni, discussioni senza fine, paura per sé e per il proprio caro, la sensazione che al peggio non ci sarà mai fine.

I servizi hanno orari, turni di lavoro, giorni di apertura e chiusura… una scansione impensabile per chi vive un’alterazione della coscienza o per chi ne ha comunque bisogno. In alcune città le liste d’attesa consentono colloqui molto diradati nel tempo, il sostegno farmacologico che viene garantito non si ha modo di seguirlo con la giusta costanza o si è costretti a delegare il controllo a chi già vive una condizione di fragilità. Il ricovero in strutture adeguate non è poi una cosa semplice.

Difficilmente in fasi acute chi soffre accetta di buon grado un ricovero: vive nella paranoia di essere braccato, nell’ossessione che qualcuno desideri fargli del male, nella sua mente si manifestano solo nemici, le parole che vengono ascoltate sono distorte, così come appaiono distorti i volti delle persone che si avvicinano.

Per tutto questo dobbiamo ripensare ai servizi, alla loro funzione, permettere gli accessi a “bassa soglia” come viene detto in gergo, cioè accessi che non richiedono l’avvio di burocrazie che, almeno in un primo momento, creano l’avvio di un rapporto terapeutico macchinoso. Dobbiamo pensare forse a figure come quelle del compagno adulto, capaci di affiancare in momenti diversi della giornata chi ai servizi non riesce ad accedervi.

Abbiamo bisogno di professionisti in grado di poter andare a fare una passeggiata, di mettersi seduti su una panchina del parco, che possano sedersi a prendere un cappuccino al bar senza perdere di vista l’obiettivo terapeutico. Abbiamo bisogno di comunità aperte, residenziali e semiresidenziali, dove le persone possano essere impegnate, dove chi è perso possa dare un nuovo senso alla propria difficoltà.

Abbiamo bisogno di concretezze e non di utopie, abbiamo bisogno che la politica ripensi i fatti intorno alla salute mentale e possa decidere di investire sul benessere di tutti. Vanno ripensati i tagli alla salute, vanno rimessi in piedi servizi che attualmente soffrono la carenza di personale. Al personale già in forze va data l’opportunità di un aggiornamento, di uno scambio tra professionisti che possa rimotivare che dalle esperienze di lavoro “in prima linea” possa far emergere la messa in atto di buone pratiche.

Bisogna sforzarsi di ricreare una rete, di sapere quali risorse esistano sul territorio così da poter dare non solo informazioni ma raccordare tutti per la gestione di casi e situazioni che mostrano elementi di difficoltà che richiedono un impegno maggiore. C’è bisogno di tavoli di confronto dove famiglie, operatori, servizi, politica, possano discutere di salute e di sicurezza.

La malattia mentale non è un problema del singolo; è una responsabilità di una comunità, perché è la comunità tutta che viene colpita.