(Susanna Porrino)

È stata pubblicato online qualche tempo fa una discussione a proposito del razzismo, condotta dal giovane youtuber Guglielmo Scilla e dall’influencer italiana Loretta Grace, di origini nigeriane e nordafricane e impegnata da anni nella lotta sul web contro le discriminazioni e gli stereotipi culturali.

Il fattore più interessante tra quelli emersi è che, se fino ad alcuni anni fa il desiderio di parità si esprimeva soprattutto nella richiesta di diritti (politici, economici o giuridici), oggi il bisogno più sentito da chi si sente una componente minoritaria della popolazione è quello di essere visivamente rappresentato.

Il mondo del cinema è stato invaso da una serie di politiche e limitazioni atte a stimolare il più possibile la realizzazione di prodotti in cui ogni gruppo sociale possa riconoscersi (dando in realtà a volte origine a, come risultato opposto, forme di rappresentazione molto poco spontanee o funzionali nei contesti in cui venivano inserite). E tutti gli altri settori, dalla moda ai giochi per i bambini, stanno cercando in qualche modo di esaudire le richieste di una cultura che vuole apparire sempre più inclusiva e aperta alla varietà.

Curioso notare che la necessità di rifletterci nei modelli che ci vengono proposti dall’esterno sia divenuta ormai un aspetto così vitale nella costruzione della nostra identità di persone da venire reclamato come un diritto inalienabile. Se chi si avverte poco rappresentato chiede di potersi sentire legittimato dalle immagini e dai linguaggi mediatici, chi già può godere di ampie rappresentazioni (come, nel caso di questo dibattito, la parte di popolazione bianca o con sembianze più tipicamente europee) sente il bisogno di conformarsi sempre più ai modelli proposti, per non perdere anch’esso di dignità nel caso in cui ne rimanesse escluso.

La bellezza e la dignità sono misurabili solo se confrontabili con figure ed esempi a cui siamo abituati; la diversità e le differenze, per quanto intriganti e fonte di elogi, sono poi di fatto chiamate ad annullarsi se vogliono essere tradotte in una reale accoglienza nella società, a meno di non riuscire esse stesse a imporsi come modello valido e diffuso.

Si tratta di una concezione della persona e della figura umana possibile solo in una realtà come la nostra, fatta di immagini e slogan, ma inconcepibile per le epoche passate, quando la bellezza era ancora una questione personale, impossibilitata a comparire a colori su uno schermo e necessariamente affidata alle parole per venire resa nota.

In questo contesto Teocrito, uno dei maggiori poeti che la Greca Antica possa vantare, aveva imparato anch’egli a parlare di una bellezza che andava oltre ogni stereotipo, e i versi nei quali celebrava lo splendore di una flautista di origine straniere sono passati alla storia come fra i più celebri della letteratura classica: “O graziosa Bòmbica, tutti quanti ti chiamano Sira, arsa dal sole, e magra. Per me, sei colore del miele. Scura è la viola anch’essa, è scuro il giacinto segnato dalle lettere; eppur, più d’ogni fiore si colgono a tesser ghirlande” (Idilli, X).

Sono versi che possiamo comprendere, ma che non sapremmo ripetere, in primo luogo perché celebrano la diversità con una delicatezza e una ingenuità che abbiamo in parte perdute, appiattiti dalla necessità di uniformare ogni cosa dietro un velo di educazione e di affettato rispetto; ma soprattutto perché parlano di una bellezza che poteva sbocciare in silenzio, rimanendo nascosta e protetta fino al momento in cui sarebbe stata riconosciuta e lodata dallo sguardo di chi fosse stato in grado di scorgerla.

Ben lontana e ben diversa dalla bellezza pretesa o imposta di cui oggi la nostra cultura ha bisogno di nutrirsi continuamente, e che può essere alimentata solo dalla moltitudine degli sguardi. Sguardi che sembrano non essere mai sufficienti, al punto da far sentire continuamente bisogno di risvegliarli, modificando il proprio aspetto, pubblicando nuove immagini di sé, tentando il più possibile di riconoscerci nell’approvazione altrui e di essere riconosciuti come sempre più simili e conformi ai modelli ideali.

Abbiamo bisogno di scoprire che esistono una dignità e un valore che non hanno bisogno di specchi per acquisire un significato. Il bombardamento di immagini a cui veniamo sottoposti ogni giorno ci dà l’illusione che non possa esistere legittimità in ciò che non siamo abituati a vedere; ma a dover cambiare non sono tanto le immagini, quanto il pensiero di una cultura che guarda alla bellezza e alle apparenze come ad un prodotto commerciale senza alcuna individualità.

È giusto, ed è bello, essere esposti anche a modelli diversi rispetto a ciò che è prevalente nella nostra cultura; ma finché anche questi saranno nient’altro che ulteriori portatori di nuovi standard a cui conformarsi, e finché continueranno ad essere la meta a cui aspirare in un insaziabile desiderio di essere visti, allora non porteranno al riconoscimento di un valore in chi li guarda, ma solo ad una nuova frustrazione di quel senso di unicità a cui non viene lasciato alcuno spazio per esprimersi.