(Susanna Porrino)

Nell’Afghanistan ricaduto sotto il dominio talebano, dove il rettore della Kabul University ha dichiarato l’impossibilità per le donne di accedere agli edifici scolastici. Le donne di Kabul stanno perdendo uno dopo l’altro il diritto alla formazione intellettuale, alla libertà, all’espressione, e a tutto ciò che avrebbe potuto contribuire a conferire loro la dignità di cittadine. La loro situazione ci ricorda quanto siamo abituati a dare per scontato i privilegi di cui disponiamo: troppo spesso abbiamo trasformato il femminismo in una questione superficiale incentrata su minuzie e dettagli, dimenticando i pesi da cui solo in questi ultimi decenni siamo state liberate.

Senza volerci profondere in un’apologia traboccante di retorica, gli eventi di questi giorni ci chiamano di nuovo a guardare in faccia una figura della donna emarginata e allontanata in primo luogo dal sapere in ogni sua forma, che percorre come un filo tutta la storia dell’umanità. Noi stessi siamo figli di un’Europa che fino ad appena un secolo fa negava alle donne il diritto al voto e talvolta l’accesso alla formazione obbligatoria.

Il fulcro della questione dell’istruzione non sta tanto nei contenuti e competenze che è possibile acquisire a scuola, quanto nel desiderio – o meno – da parte della società, di includere al suo interno vari gruppi di popolazione; escludere la parte femminile della cittadinanza dal mondo della scuola e del lavoro significa scaricare sulle sue spalle il ruolo di anello debole ed insignificante della società, su cui sfogare le repressioni, le tensioni e le frustrazioni che non si riesce a consumare altrove.

Sappiamo che, sottilmente nascosta dietro ad ogni follia umana, si ripara la paura di fallire; come i dominatori bianchi tremavano al pensiero del prezzo da pagare una volta liberate dalla schiavitù le popolazioni africane, così i talebani sentono la necessità di continuare ad esercitare il potere sulla parte di popolazione che vedrà crescere nel proprio grembo il futuro del Paese.

La speranza è che anche le donne afghane riescano a trovare modi e strade per fare sentire e valere la propria voce, scoprendo in primo luogo una collaborazione ed un appoggio in quegli uomini che in questi vent’anni hanno avuto modo di toccarne con mano il valore. Da parte nostra, dovremmo chiederci quanto abbiamo da imparare guardandole.

Queste donne ci restituiscono in primo luogo una loro immagine con cui non abbiamo più voluto avere a che fare, ma che forse dovremmo riscoprire: anche le moderne e progredite donne occidentali hanno dovuto fare le proprie rinunce, e nel percorso, termini come “femminilità” e “maternità” sono scomparsi dal vocabolario del politicamente corretto, trasformandosi in mostri spaventosi che inseguono e assalgono l’emancipazione e la forza della donna.

Nella lotta per il riconoscimento di diritti che permettessero di conformarsi al modello maschile è andato perduto un desiderio di valorizzare anche tutto ciò che è proprio e specifico della donna, di riconoscere ciò che la distingue e affermarne la dignità. È forse giunto il momento che questo desiderio venga riaffermato: fino a quando non saranno le donne stesse a riconoscere in sé non una debolezza ma una diversità che va protetta, la loro incapacità di emanciparsi continuerà ad apparire di fronte al mondo come un’incapacità di rivelarsi all’altezza.

In secondo luogo, le donne di Kabul ci ricordano che ciascuna – o quasi – delle nostre lamentele è in realtà espressione di un lusso che altre nazioni non conoscono: il diritto di pretendere. Ci siamo abituati ad esigere la perfezione da chi e da ciò che ci circonda per paura che le debolezze altrui possano farci soffrire, dimenticando che ci sono Nazioni in cui la sofferenza ingiusta è all’ordine del giorno.

Le donne di Kabul sono state costrette a perdere tutto per salvare sé stesse, mentre noi ci domandiamo se saremmo disposti a rinunciare a qualcosa di più delle cannucce di plastica per salvare il pianeta, del diritto ad avere ragione in ogni confronto per salvare una relazione, dei pochi euro concessi all’uomo che chiede l’elemosina in strada per salvare una vita umana.