(Fabrizio Dassano)

Poiché ho un duenne nipote sino-italiano o italo-cinese (dipende dal punto di vista sovranista) quest’anno mi sono toccati due capodanni: quello italico canonicamente festeggiato e quello cinese in un ristorante vicino a Ivrea.

Quello italico lo conosciamo abbastanza tutti (60,5 milioni di abitanti) e non sto dunque qui a rinvangarne il ricordo. Di quello cinese (Chūnjié) – un rito di passaggio al nuovo molto radicato, non solo in Cina ma in tutti i popoli orientali in genere – ciò che subito mi piace è il fatto che non vi è una data di festeggiamento fissa ma mobile: poiché ci si basa sul novilunio, il Capodanno cinese cade durante il secondo novilunio dopo il solstizio d’inverno. Mentre qui da noi non sgarri dal 25 dicembre per il Natale al 31 per la fine dell’anno.

Bisogna dire che come spirito generale il Capodanno cinese somiglia molto al Natale nostro, perché essenzialmente è una festa della famiglia: quando possono gli orientali si mettono in viaggio per tornare alla casa d’origine. Quelli stabilmente residenti da noi si sono accontentati di trovarsi con le famiglie al ristorante, come il gruppo di Ivrea. Poiché parliamo spesso di famiglie miste, ho cercato di mangiare ed ascoltare le signore che gentilmente traducevano dal cinese all’italiano e viceversa.

Ciò che più mi ha colpito è che, contrariamente a quanto pensassi, le anziane madri di queste signore cinesi non parlavano molto tra di loro: anzi, eccetto la mia consuocera e un’altra signora attempata, tutte le altre si scambiavano ampi sorrisi e basta. Ho pensato antropologicamente a chissà quale rituale ignoto o regola di comportamento: la consuocera alfa, il genero omega e l’amica beta? Raggiunta mia nuora gli ho chiesto in maniera vibrata il motivo dei tanti silenzi. Lei, con quell’innata eleganza che contraddistingue gli orientali, mi ha spiegato che semplicemente non parlano la stessa lingua. “Ma non sono cinesi anche le altre signore?”, chiedo. “Si, certamente sono tutte cinesi, ma forse non sai che in Cina ci sono 10 lingue diverse”.

Ho così realizzato che il Mandarino è parlato da 830 milioni di persone, il Wu da 77, il Cantonese da 71, il Jin da 45, lo Xiang da 38, l’Hakka da 34, il Gan da 31, lo Hui da 3,2 e infine il Ping da appena 2 milioni di persone. Il problema è che queste lingue sono quasi totalmente incomprensibili tra di loro: “Quindi – prosegue mia nuora – mia madre che parla cantonese riesce a parlare un poco con la signora che ha al suo fianco perché pur essendo di un’altra lingua hanno qualcosa in comune”. “Bene – ribatto -, ma tu con mio nipote come parli?”. “In mandarino”, mi risponde. “E la nonna come parla con mio e suo nipote?”, chiedo. “In cantonese”, mi dice. “Ottimo! – dico, lasciando spazio a un ultimo quesito -: ma tu e mio figlio tra voi non parlate inglese?” “Si, quando abbiamo fretta – conferma -, altrimenti in italiano”.

Ora rifletto: mio nipote dice solo una parola e mezza in italiano: “nonno” e “tu-tu” che è riferito ai treni che andiamo a vedere alla stazione di Ivrea. E tutti i suoni restanti che emette senza parsimonia?