(Susanna Porrino)

Oggi, le proteste di chi per la seconda volta in un anno è stato lasciato senza lavoro (e di chi teme la stessa fine) sono al centro di un clima sociale sempre più teso e difficile da gestire, dando quasi l’impressione di veder risorgere dal passato uno dei tanti momenti nella storia in cui il malcontento generale e la paura per la propria sopravvivenza hanno cominciato a divenire fuori controllo.

Eppure mi domando perché, accanto alla criticità della situazione in cui si muovono i lavoratori rimasti privi del diritto di far procedere la propria attività, non si parli mai anche della difficoltà in cui si sono trovati tutti coloro che non hanno avuto la possibilità di cominciarne una.

Qualche giorno fa ho incontrato due ragazzi intorno ai vent’anni, rimasti senza lavoro dopo un breve periodo di prova in un ristorante: la prospettiva di una probabile e imminente chiusura aveva scoraggiato il proprietario dall’idea di assumerli stabilmente tra i propri dipendenti.

Come loro, centinaia di ragazzi sono oggi paralizzati, rigettati da un mondo del lavoro che sta collassando su se stesso e privi di qualunque tutela perché non ancora parte integrante di esso. Non è previsto alcun risarcimento per il loro futuro mancato, per gli anni che dovranno attendere nel tentativo di inserirsi in un panorama lavorativo che al termine di questa crisi sarà ancora più debole e traballante.

Eppure, da parte loro non si sente alzarsi che una flebile protesta, e anzi a permanere è quasi sempre lo stesso silenzio a cui vengono educate oggi le generazioni più giovani, per le quali l’immagine di un Paese che offre loro scarsissime prospettive era, già da molto prima della pandemia, assolutamente inevitabile.

Se è vero che probabilmente esiste una percentuale di giovani italiani poco disposti a lavorare e a mettersi in gioco, ad essere penalizzati in questa situazione sono tuttavia coloro che invece sarebbero stati pronti a farlo. Così come sono stati penalizzate intere annate di studenti, vittime non solo della fretta e dell’organizzazione last-minute con cui si è progettata la riapertura delle scuole, ma anche di un sistema che da anni opera in maniera approssimativa nel settore dell’istruzione.

In questo senso, credo che anche lo scenario in cui si devono muovere, spesso nella più completa indecisione, i ragazzi usciti dalle scuole superiori sia particolarmente eloquente. Da un lato, la presenza di percorsi di orientamento post-liceale assolutamente astratti e basati su una rappresentazione della società e della realtà moderna ormai inesistenti, e per questo assolutamente inadatti a guidare i ragazzi nella scelta del proprio futuro.

Dall’altro, la visione di un panorama universitario che offre per il 90% proposte formative di stampo ormai obsoleto, incapaci di collocarsi in maniera efficace nel contesto lavorativo italiano ed internazionale e dunque fondamentalmente inutilizzabili nel futuro immediato. Specchio puntualissimo di quella stessa mentalità italiana che nega valore e dignità al settore scientifico e si aggrappa ad una cultura che però non è in grado di attualizzare, il nostro Paese offre solo ad una piccolissima parte di popolazione la possibilità di accedere a facoltà di impronta ingegneristica o sanitaria (che oggi dominano l’universo lavorativo), offrendo in compenso alla stragrande maggioranza l’accesso libero a facoltà di tipo teorico e tendenzialmente umanistico che probabilmente potrebbero anche funzionare, se qualcuno si prendesse però l’incarico di svecchiare i programmi e ripensare ad un approccio decisamente più orientato al mondo del lavoro.

Oggi ci si rimprovera l’incapacità di prevedere e dunque arginare l’arrivo di una seconda ondata, la noncuranza con cui prima della Pandemia si era lasciato che il Paese accumulasse criticità e problemi, gli errori del passato che ci hanno portati ad avere un apparato sanitario estremamente ridotto e inadatto a fronteggiare la situazione attuale (sebbene, vale la pena notare, nulla sia stato fatto per invertire la rotta in precisione di un futuro che potrebbe ripresentare gli stessi problemi).

Mi domando se un domani ci si rimprovererà anche del fatto di essersi dimenticati di un’intera generazione, richiudendola nel silenzio della rassegnazione e sperando che essa sia in grado di riscattarsi in maniera completamente autonoma.