(Fabrizio Dassano)

In questi strani giorni in cui ci è entrato finalmente in testa che l’unico modo per bloccare la diffusione del contagio è quello di rimanere isolati (e chissà ancora per quanto tempo…), si fa avanti in modo preponderante la noia. Il black out delle Tv generaliste e di quelle che viaggiano su internet, o della rete telefonica sotto il “peso” dell’utenza scatenata, potrebbero dare un altro duro colpo al popolo costretto a casa. Che cosa ci resterebbe in quel frangente? La radio forse.
Il mio vicino solitudinario – che già prima della pandemia trovava la presenza umana cittadina al di sopra delle sue possibilità – poco tempo fa si è ritirato in una vecchia casa di campagna, nel circondario. Nella buca ieri ho trovato una sua lettera manoscritta, che vi riporto tale quale:

Caro ex vicino di appartamento,
non sono andato via come fece Giovanni Boccaccio per sfuggire alla peste nera da Firenze, ma devo dire che il momento è stato decisamente opportuno: oggi vivo in una casa-fattoria del 1908 e tutto si è fermato all’incirca agli anni ’70 del secolo scorso Le case che circondano la mia sono vuote, e gli unici rumori umani sono i rintocchi del campanile e il passare di trattori nella via. Nient’altro. Al contrario sento gli uccelli che iniziano a cantare alle 5 di mattina. Cos’abbiano da cantare non l’ho ancora capito. Mi scaldo e cucino le ormai scarse vivande restatemi sul potagé. Fortunatamente c’è una vecchia scorta di legna sotto la travà di fronte.
Non ho la TV e nemmeno internet. Però ho la radio che mi fa molta compagnia. C’è ancora un vecchio telefono grigio, c’è anche il vecchio numero di chi abitava qui. Ho alzato la cornetta e messo il dito nel disco e composto qualche numero. Ovviamente non c’era nessun segnale. In una stanzetta ho trovato intatto un ricevitore radiofonico, un CB da 11 metri di lunghezza d’onda, di gran moda nel secolo scorso. L’ho collegato all’alimentatore e si è acceso, le luci illuminavano gli schermi dei voltmetri analogici e le lancette si muovevano. Mi sono quasi commosso: mi sentivo come Giuseppe Biagi sul pack del Polo Nord, tra i resti della navicella del dirigibile “Italia” che con l’Ondina 33 nel 1928 lanciava disperati SOS nell’etere… Ma ascoltando i canali per quasi un’ora, mi sono dovuto arrendere. Non c’era nessuno nell’etere. O forse l’apparecchio non funziona più da anni.
Mi resta il telefonino: domenica sono stato subissato da chiamate di amici e parenti come non era mai successo. Tutto sommato è stato piacevole. In tempi normali molta di quella gente non mi avrebbe certamente cercato per fare 2 parole. Anche i muratori che avevo chiamato per alcuni lavoretti tempo fa, sono spariti ormai da una decina di giorni.
Tutto è fermo ma non la natura: gli alberi da frutto stanno fiorendo e fogliando, spuntano i fiori primaverili che danno pennellate di colore al paesaggio molto bello circostante. L’aria mi era sembrata più tersa e anche più pulita, finché un giorno hanno sparso il concime sui prati. Quando c’è il sole il tempo scorre veloce e meglio. Ho passato molto tempo a tagliare dei piccoli tronchi per ridurli alla lunghezza giusta per farli entrare nel potagé. La segatura per terra attira i merli che qui sono sfacciati, ti vengono vicini curiosi. Le gazze ladre mi controllano posate sui rami degli alberi circostanti. I più inquietanti sono i corvi imperiali: ogni mattina arrivano in due o tre, si posano a una decina di metri e ti osservano con gli occhietti neri e il beccaccio lungo, quasi a dire: se ti capita… noi siamo qui.
L’accensione del potagé è il primo rito del mattino. Dal successo di quell’operazione dipende la bollitura del caffè. Ho maturato una discreta abilità da quando ho esaurito quelle pastiglie bianche che puzzano di petrolio, utilizzando vecchie fascine abbandonate sotto la travà da cinquant’anni. Ho finalmente colto l’importanza dei giornali: perfetti per accendere il fuoco. E di questo volevo parlarti, visto che tu ci scribacchi sopra, dell’importanza dei giornali: provaci tu ad accendere il fuoco con uno smartphone.