Con due anni di anticipo sulla scadenza della legislatura Giorgia Meloni ha annunciato la sua ricandidatura alla guida del Paese, nel 2027. Perché questa fretta? Per ragioni internazionali ed esigenze di politica interna.
Il primo problema si chiama Donald Trump, di cui la premier si dichiara alleata ma non succube. Dopo l’euforia della vittoria su Kamala Harris e la corsa alla Casa Bianca, le continue “giravolte” del Tycoon sui dazi, sull’Ucraina, sul Medio Oriente, le gravi provocazioni sul Canada, la Groenlandia, il Canale di Panama (e, purtroppo, anche sul Papa) rendono sempre più difficile per la presidenza del Consiglio una mediazione tra Usa ed Europa, tra interessi americani ed esigenze italiane. La candidatura ora per un nuovo mandato a Palazzo Chigi previene ulteriori “sbandate” dell’alleato USA, frenando possibili strumentalizzazioni interne del vice-presidente Matteo Salvini, uomo di punta dell’estrema destra europea e filo-trumpiana.
La seconda questione, forse la più decisiva, riguarda una corretta lettura dei dati elettorali: il destra-centro, nonostante le divisioni nel “campo largo” non sfonda nella base elettorale, anche per il forte astensionismo; Fratelli d’Italia permane il primo partito (i sondaggi lo dànno tra il 27 e il 30 per cento), ma Lega e Forza Italia sono fermi all’8-9%. Vale a dire che il centro-sinistra, seguendo la proposta Franceschini di presentarsi uniti nei collegi pur con diverse posizioni politiche, otterrebbe complessivamente un risultato analogo. Avremmo quindi un “pareggio” nelle Camere, con la scelta del Governo che torna pienamente nelle mani del Capo dello Stato.
Per evitare quest’impasse, che la escluderebbe da Palazzo Chigi, la Meloni collega la sua ricandidatura ad una profonda modifica della legge elettorale, con l’introduzione del sistema proporzionale al posto dei collegi elettorali ed un premio di maggioranza alla coalizione che supera il 40-42 per cento dei voti (in realtà è un premio alla “prima minoranza”). In altre parole: una rivoluzione legislativa per abbattere il “lodo Franceschini” che unisce Pd-M5S-AVS-Centristi, soprattutto riportando il regista della politica al Quirinale, riducendo il peso delle segreterie dei partiti.
Riuscirà la Meloni a cambiare la legge elettorale alla vigilia del voto politico? La partita è aperta, ma la storia della Repubblica non gioca a suo favore, dalla sconfitta del maggioritario degasperiano nel 1953 al fallimento della proposta istituzionale del Governo Renzi nel 2016. Le riforme, per reggere, necessitano di un vasto consenso, che al momento non è all’orizzonte.
Il rischio inoltre è quello di distogliere la priorità dell’impegno politico e parlamentare delle urgenze attuali: la ricerca della pace, la lotta alla stagnazione economica, la crisi della sanità, la carenza di servizi sociali, lo scontro sulla giustizia tra Governo e Magistratura…
C’è poi da chiedersi se il “premio di minoranza“, per mantenere il dogma ideologico dello scontro “destra-sinistra”, rientri effettivamente nell’interesse del Paese, ove il forte astensionismo, le divergenze interne ai partiti, il rapporto difficile con la società civile sembrerebbe spingere verso una lettura pluralistica dell’attuale contesto italiano, nella ricerca del “bene comune” anziché del “nemico da abbattere”.
Un’annotazione infine sui prossimi referendum: il vice-premier Tajani ha invitato all’astensione per non raggiungere il quorum, portando con sè l’intero Governo. Non è un bel segnale, in un Paese in cui già normalmente un italiano su due non va alle urne, nonostante gli appelli accorati del Capo dello Stato che, ancora recentemente, ha ricordato i valori democratici conquistati dai Martiri della Resistenza alla dittatura nazifascista. La libertà, di cui il voto è una delle grandi espressioni, va consolidata giorno per giorno, senza distrazioni.
I cinque referendum, dal lavoro al diritto di cittadinanza, toccano temi essenziali della vita sociale: perché sottrarsi al legittimo confronto delle idee e delle esperienze, vero “lievito” di una democrazia partecipata? Perché la fuga al mare o ai monti? La politica non può essere, proprietà esclusiva del Palazzo, anzi. Le occasioni di partecipazione popolare, come i referendum, dovrebbero essere incoraggiate, non sminuite per evidenti ma vecchie occasioni di potere.