(Susanna Porrino)

Ci sono libri che danno la sensazione di saper risvegliare l’uomo da un lungo sonno, e lasciano tirare un sospiro di sollievo permettendogli di ricordare, nella confusione a cui è continuamente indotto, chi egli sia e in cosa consista la sua esistenza: e fra questi rientra certamente “Giobbe. Romanzo di un uomo semplice”, una delle opere più belle e delicate dello scrittore tedesco Joseph Roth, scritta ricollocando all’alba della Prima Guerra Mondiale la storia del celebre personaggio biblico e seguendone gli impeti e le oscillazioni.

Il protagonista, Mendel Singer, è un umile maestro ebreo destinato a scoprire sé stesso e la propria fede nello scontro con le svariate disgrazie che gli accadranno nel corso della vita, e saranno proprio i moti e le trepidazioni del suo animo i protagonisti della storia offerta al lettore. Un romanzo che ha un ritmo nuovo rispetto alla frenesia a cui siamo abituati; un racconto che si dilata e si sviluppa con la calma e la serena lentezza di un mondo lontano ed estraneo alla fretta della realtà industriale e alle ansie dell’universo consumistico, più simile ad una favola che condensa e descrive in poche pagine la parabola della vita umana.

Si tratta di un’opera che aveva il potere di parlare ai lettori già al momento della pubblicazione, ma che parla oggi ancora più che nel passato e mette in discussione una generazione educata a fuggire di fronte ad ogni possibilità di insoddisfazione. Dalla tecnologia alle realtà virtuali, dal divertimento sfrenato al miraggio del successo totale o della bellezza perfetta, dall’alcool al ricorso a sostanze più pesanti e dannose, tutto sembra nato per offrire un’occasione di sottrarsi alla realtà nei momenti in cui essa è portatrice esclusivamente di noia e frustrazione: la vita stessa dell’uomo occidentale è una fuga da dolori e privazioni che non sono mai stati eliminati del tutto, ma relegati come prezzo da pagare ad altri popoli o ad interi ecosistemi.

Anche la fretta di cui egli si caratterizza è uno strumento per fuggire, dall’angoscia del tempo che passa o dalle paure che non vuole affrontare; e proprio da questa fretta sembrano offrire un sollievo i personaggi del romanzo.

Con la calma quasi esasperante con cui si muovono tra i giorni che scorrono, essi riescono a disegnare con i propri gesti un ritmo che, senza mai sfiorare la noia o i tempi morti, dimentica la frenesia di chi deve vorticosamente realizzare una storia, per seguire invece il percorso lento e graduale che l’animo umano compie nel corso di una vita.

Persino i loro corpi si sottraggono alle dinamiche malate e deliranti a cui sono sottoposti nei nostri tempi moderni, non comportandosi come modelli astratti al servizio di una mentalità che li costringe a continui confronti con gradi di bellezza o perfezione inarrivabile, ma come veicoli di relazione tra l’uomo e ciò che sta fuori o dentro di lui: Mendel Singer vede la propria vecchiaia riflessa nel corpo sfiorito e anziano della moglie, il figlio Menuchim porta nelle disabilità fisiche il segno evidente della propria malattia, la figlia Miriam scopre e porta all’estremo l’arte della seduzione attraverso il confronto con la propria immagine di donna.

Pubblicato nel 1930, quando l’idea che la bellezza potesse diventare un prodotto commerciale era ancora lontana, il romanzo non prevede l’esistenza di corpi che mentono: i suoi personaggi portano – e devono portare – in sé e senza imbarazzo i segni di un corpo che cambia, cresce, sboccia ed avvizzisce, testimone di una realtà umana in cui non c’è il tempo né il desiderio di vivere una farsa.

Nell’inquietudine della società contemporanea, “Giobbe” insegna soprattutto ai giovani la necessità vitale di imparare a non fuggire, e a vivere anche in un mondo, che, con tutti pregi, presenta comunque le sue avversità: la grande rivelazione è che tale percorso non si conclude in un’esausta disperazione, ma in un continuo incontro con un’ardente speranza e nella realizzazione finale di quanto ogni passo abbia avuto il suo valore.