(Susanna Porrino)

La facilità con cui oggi possiamo comunicare ci permette di illuderci che le parole abbiano un potere fragile e discutibile. Ma abbiamo probabilmente sviluppato molto prima la capacità di comunicare ai nostri simili la presenza di cibo che non quella di elaborare complesse elucubrazioni mentali; per quanto ci sforziamo di ignorarlo, il nostro inconscio conosce estremamente bene la solenne potenza e sacralità della parola.

Il meccanismo del taboo non è un concetto nato con religioni astratte e bigotte, ma una realtà nata dalla consapevolezza umana che determinate frasi e pensieri, pronunciati ad alta voce, rischiano di contaminarlo lasciando segni permanenti non solo in chi ascolta, ma anche e prima di tutto in chi parla.

Mostrare con le parole un disprezzo per la vita umana, per la sofferenza degli altri, persino per se stessi e per la propria esistenza alla lunga fa germogliare nell’uomo un seme di amarezza e distacco che rischia di radicarsi e pervadere ogni altro aspetto della realtà.

Attendiamo all’infinito prima di esprimere a parole l’amore, l’impegno, il dolore, perché sappiamo che abbattere i muri silenziosi che ci proteggono dagli attacchi altrui apre in noi la possibilità di essere feriti ad un livello molto più profondo; ma troppo spesso non curiamo sufficientemente il timore di abbattere con violenza i muri di chi ci circonda, invadendo con le parole quelle parti che si chiede di lasciare intoccate.

Molte forme di bullismo e violenza psicologica nascono proprio da questa stessa volontà di continuare a guardare il mondo esclusivamente con i propri occhi: l’idea che ognuno possa liberamente esprimersi, e ridere, su qualunque argomento da cui non si senta direttamente ferito degenera in alcuni casi nell’idea che la delicatezza e l’attenzione che la comunicazione con gli altri richiede non siano una condizione necessaria al rapporto con gli altri, ma una limitazione infondata ed egoistica.

Eppure, se ognuno di noi è libero di esprimersi nei modi in cui desidera, non lo è di modificare in chi le riceve – e neanche in se stesso – gli effetti delle proprie parole. Sbagliamo a credere di poter essere giudici del dolore e del passato di altri, liberi di poter stabilire da noi un’asticella in base alla quale conformare il nostro comportamento e le nostre parole, noncuranti del fatto che ciò che in passato è stato definito indicibile lo è divenuto per la paura dell’uomo di trovarsi nuovamente di fronte ai propri errori.

Il motivo per cui le battute e gli scherzi di stampo razzista, sessista, violento e discriminatorio in qualunque modo sono state condannate non si fonda sull’intenzione di limitare, arbitrariamente o in maniera ipocrita, la facoltà umana di affrontare qualunque argomento, ma sul terrore che l’uomo ha provato di se stesso nel momento in cui si è scoperto improvvisamente capace di trasformare le proprie parole in atti brutali di violenza, sterminio e crudeltà.

Esiste la libertà di espressione, che è un diritto legale e come tale deve essere tutelato dalla legge; ed esiste anche una coscienza e un rispetto umano, che gli individui dovrebbero imparare a sviluppare autonomamente per non rendere vana e dannosa questa stessa libertà.

Non vi è necessariamente un problema con quello che viene comunemente definito “black humour”, ma con la noncuranza che vi sottende; ciò che l’uomo moderno ha estrema necessità di comprendere è che accettare di adottare, almeno in alcuni momenti, gli occhi e l’esperienza di altri non significa limitare se stessi, ma entrare a fare parte di una rete umana di sentimenti e sofferenze immensamente più vasta e più arricchente.