(Susanna Porrino)

Credo che il risalto che assumono determinate questioni nel contesto culturale di una nazione dica molto a proposito delle lotte irrisolte che si consumano sul suo territorio. Se il caso George Floyd ha profondamente scosso un contesto come quello statunitense, in cui la discriminazione nei confronti della popolazione afroamericana era questione ormai troppo diffusa per poter continuare ad essere trascurata, così in questi giorni la stampa italiana è stata profondamente assorbita dalle vicende relative alle accuse di violenza e stupro mosse da una ragazza al figlio di un noto personaggio politico.

La portata mediatica assunta da queste accuse, certamente aumentata dalla notorietà dei personaggi in questione, mostra però quanto nella nostra cultura sia ancora estremamente difficile parlare di violenza rivolta alle donne in maniera equilibrata e univoca, senza sfociare in estremismi e prese di posizione basate più su giudizi personali che su evidenze concrete.

È interessante notare come la questione qui in gioco non sia tanto la veridicità o meno delle accuse mosse dalla ragazza, oggetto di analisi da parte della magistratura in sedi e contesti ben diversi, ma la vittoria ideologica di una delle parti che intervengono in un dibattito nella maggior parte dei casi necessariamente polarizzato, in cui la colpa e il dolore di persone concrete diventano una questione di punti di vista: da un lato chi ha fatto della lotta alla violenza la propria direzione di vita, estendendola però ad intere categorie rese colpevoli senza distinzioni; dall’altro chi si difende da tali accuse rovesciando la responsabilità sul presunto vittimismo delle donne coinvolte.

Un’espressione che è comparsa più di una volta in questi giorni è stata quella di “rape culture”, un concetto per la prima volta spiegato in maniera innovativa da Susan Brownmiller nel suo saggio “Against our will: men, women and rape”, in cui la violenza sessuale veniva letta come uno degli aspetti sociali attraverso cui ribadire i rapporti di forza in vigore in una società marcatamente maschilista. Il saggio, pubblicato nel 1975, si rivolge in realtà ad una società ancora diversa da quella moderna, e che può essere usato solo in parte per interpretare ciò che avviene oggi in una
cultura che, se certamente risponde all’oggetto “discriminatorio”, è però estremamente lontana da quel “patriarcale” che di tanto in tanto si cerca di applicarle, e in cui le dinamiche tra i generi si sono ulteriormente evolute.

Oggi è decisamente più difficile relegare esclusivamente all’etichetta di “maschilismo” fenomeni che spesso riguardano aspetti della nostra cultura estesi ad ogni genere; se certo rimangono i resti di una realtà passata in cui l’uomo sistematicamente e nel pieno consenso di tutti imponeva con la forza la propria superiorità rispetto alla donna, oggi però anche altri aspetti concorrono in vicende tragiche come quella di cui si discute.

E ciò dovrebbe farci riflettere sugli eventuali problemi che la cultura del presente, non solo quella del passato, ci pone: l’assenza di un’educazione al senso del limite in una realtà in cui tutto è concesso; la continua presenza di pressioni e standard che pesano allo stesso modo sugli uomini e sulle donne; l’oggettivizzazione dei corpi, vissuti come esperienza e non come persone, in un contesto in cui l’individuo è costantemente chiamato a dimostrare all’esterno la propria adesione a comportamenti e stili di vita esaltati dalla massa.

Anche il senso della trasgressione si presenta in quest’ottica come un aspetto che, se giustamente condannato in alcuni ambiti, rimane però ancora colpevolmente celebrato in altri: sarebbe dunque probabilmente utile una riflessione sul modo in cui tale percezione intervenga in episodi di violenza, sia essa rivolta alle donne o estesa ad altre categorie.

L’obiettivo non è ragionare per slogan né andare ad alimentare un clima di tensioni già sufficientemente rischioso. Non si tratta neanche di ridefinire i ruoli di colpevole o vittima; anche guardando al di là del caso specifico, che ancora non presenta risposte certe, non si intende in alcun modo giustificare chi compia atti di questo genere o minimizzare il dolore o la più totale innocenza di chi li subisca.

Mi sembra però urgente spogliare vicende come questa della tradizionale polemica retorica sul passato, e domandarci invece come la nostra cultura e i suoi nuovi valori si leghino a queste vicende, cercando di rendere il dibattito su tali questioni effettivamente in grado di generare riflessioni, e non solo divisioni, che coinvolgano l’intera collettività.